Politica

Il decreto anti baby-gang è l’ennesima prova di un certo populismo penale

Sono ormai decenni che uno dei più grandi giuristi che la sorte ha fatto nascere italiano, Luigi Ferrajoli, predica, inascoltato, un principio che genera e ha generato non poche difficoltà nella applicazione della bulimica produzione di leggi e decreti a cui i governi, succedutisi nel tempo, hanno dato vita. Sostiene Ferrajoli che tra i grandi problemi dei nostri sistemi normativi vi è la troppa indeterminatezza o genericità delle varie fattispecie prese in esame che amplificano, più del lecito, una applicazione discrezionale del giudice. Più in generale, denuncia la scarsa capacità del legislatore di scrivere bene un determinato provvedimento ricorrendo a disposizioni fumose, spesso inapplicabili, talvolta contradditorie o sbagliate.

Avessimo dei dubbi, a fugarli è sufficiente prendere in mano l’ultima bozza del decreto partorito dal Governo in merito a quell’universo giovanile che le semplificazioni giornalistiche riducono al termine inglese baby gang. Un universo, appunto, su cui si scaglia la furia distruttrice di un certo populismo penale che oltre alla dimensione securitaria non riesce più a vedere. Un carosello giuridico che sposta il tema della responsabilità quasi esclusivamente sui genitori, calcando progressivamente la mano sui nuclei familiari in maggiore difficoltà e arrivando a punirli togliendo loro, magari, l’unica fonte di reddito.

Si assiste al sovvertimento di ogni logica che dovrebbe corrispondere a principi di buon senso prima ancora che costituzionali: questo paese (la Repubblica italiana) nell’art. 3 della sua legge fondamentale recita che è Suo compito “…rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”. Questa bozza, al contrario, prevede che la dispersione scolastica (fenomeno enorme nel nostro paese) sia punita maggiormente, là ove questa è più frequente e quindi tra famiglie ai margini economici e sociali della convivenza, ipotizzando che oltre alla immancabile galera si incida anche sul reddito di inclusione: reddito il cui solo nome indica la difficoltà in cui versa una famiglia e la cui sospensione fa ben presagire il futuro di quel ragazzo che non va più a scuola.

Un tempo una proposta del genere si sarebbe, ad occhi chiusi, definita classista. Intendendo con tale termine la strenua lotta del ricco contro il povero. Oggi, in disuso ogni tipo di analisi che verta sulle differenze economiche, di ceto di appartenenza e di contesto, un governo può promuovere simili boutade e stampa e mass media si focalizzano principalmente sulla inapplicabilità di quanto previsto in caso di violazioni del decreto.

Perché è indubbio che se tutta la paccottiglia di provvedimenti sul divieto di telefono o di siti porno è di fatto inapplicabile nelle forme di controllo (ammesso che sia sensato nelle forme di provvedimento), ciò che genera sconcerto è la ripercussione che tale norma avrà sulle fasce di popolazione più povere che abitano i contesti più problematici. In particolare sull’unica effettiva trasgressione controllabile: la dispersione scolastica. Si manderanno gli agenti di polizia al posto degli educatori.

Il tema della devianza minorile non va preso sottogamba. Fare credere che senza investimenti ingenti sia possibile arginare o governare un fenomeno in crescita appartiene alla scuola del populismo più spregiudicato. Appartengo ad una generazione in cui le situazioni di degrado vanno affrontate con politiche sociali che prevedono investimenti di risorse economiche e umane importanti. Altre strade, ad oggi, non ne conosco.