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Cosa c’è dietro alla guerra di Biden con la Cina sull’hi-tech? L’obiettivo è frenare Pechino, ma senza creare una rottura tra le due economie

La misura era pronta da tempo, ma l’annuncio è stato a lungo ritardato per non rendere ancora più tesi i già difficili rapporti con Pechino. Alla fine, Joe Biden ha rotto gli indugi e firmato l’ordine esecutivo che consente al segretario al Tesoro di vietare o limitare gli investimenti statunitensi in aziende, istituzioni, entità cinesi – comprese quelle delle città di Macao e Hong Kong – che operano nell’hi-tech. Tre, in particolare, i settori interessati: semiconduttori e microelettronica, tecnologie dell’informazione quantistica e sistemi di intelligenza artificiale. La reazione del governo cinese è stata immediata. L’ordine esecutivo del presidente americano, si legge in un comunicato del ministero del Commercio cinese, “mina l’ordine economico e commerciale internazionale”.

L’intervento della Casa Bianca era atteso, e richiesto a gran voce, da larghi settori del mondo democratico e repubblicano, preoccupati per la crescente competizione politica e militare di Pechino. In una lettera al Congresso, Biden giustifica la misura proprio con la volontà di impedire al capitale e alle competenze americane di aiutare la Cina nello sviluppo di tecnologie volte alla modernizzazione dell’apparato militare. Si tratta di “un’emergenza nazionale”, scrive il presidente, di fronte ai progressi di Pechino “in tecnologie sensibili e prodotti critici per le capacità militari, di intelligence e sorveglianza”. Gli fa eco, in modo ben più aggressivo, il leader democratico del Senato, Chuck Schumer, secondo cui “per troppo tempo il denaro americano ha contribuito ad alimentare l’ascesa dell’esercito cinese. Oggi gli Stati Uniti, per la prima volta, compiono un passo strategico per evitare di finanziare l’avanzamento militare cinese”. Secondo molti repubblicani, la misura è però troppo timida. “Quasi ridicola”, a giudizio del senatore Marco Rubio, “perché piena di scappatoie, perché ignora esplicitamente la natura a duplice uso di tecnologie importanti e perché non include industrie che il governo cinese ritiene fondamentali”.

In queste ore, in effetti, molti negli Stati Uniti cercano di valutare esattamente la portata dell’ordine esecutivo di Biden (che del resto è soggetto a 45 giorni di dibattito pubblico, prima di essere convertito in regolamentazione ed entrare in vigore nel 2024). Pare fuor di dubbio che a essere colpite saranno le società USA di private equity, di venture capital e del settore degli investimenti greenfield (quelli in cui un’azienda stabilisce una propria filiale all’estero investendo in nuove strutture locali). In effetti le prime reazioni, ampiamente negative, vengono proprio dall’industria finanziaria USA. “Washington non dovrebbe limitare la nostra libertà di investire”, dice Edith Yeung, general partner a Race Capital, una società della Silicon Valley che investe nelle start-up del settore dell’intelligenza artificiale (AI). E al lavoro, per cercare di capire confini e possibili opportunità offerte dall’ordine esecutivo, sono gli esperti legali di DCM, altra società di venture capital della Silicon Valley con più di quattro miliardi di investimenti nell’AI.

La misura era però, appunto, ampiamente attesa, soprattutto dopo la lettera inviata da una Commissione del Congresso a quattro società – GGV Capital, GSR Venture, Qualcomm Venture e Walden International – in cui si esprimeva preoccupazione per gli investimenti in società cinesi di AI, semiconduttori e quantistica. Il contesto, del resto, si è fatto – in questi mesi di tensioni geopolitiche – sempre più complesso. L’industria tecnologica cinese, una volta una calamita per i venture capital USA, è già stata colpita da un drastico calo negli investimenti. Secondo dati forniti da PitchBook, l’investimento totale di capitale di rischio statunitense in Cina è crollato nel 2022 a 9,7 miliardi di dollari. Erano 32,9 miliardi di dollari del 2021. Nel 2023 la riduzione è stata ancora più massiccia. Sinora, le società di venture capital USA hanno immesso nelle startup tecnologiche cinesi soltanto 1,2 miliardi di dollari.

Va detto che a Pechino non sono stati a guardare. Anzitutto, l’autorità antitrust cinese ha di fatto bloccato qualsiasi operazione di merger da parte di aziende statunitensi di semiconduttori che operano nel mercato cinese (il CEO di Intel, Pat Gelsinger, è stato di recente costretto a recarsi in Cina nel tentativo di convincere i funzionari locali ad approvare l’acquisizione da parte di Intel di Tower Semiconductor). In secondo luogo, la Cina ha avviato un’indagine su Micron, la principale società statunitense produttrice di chip di memoria, vietando l’acquisto di chip Micron da parte di infrastrutture cinesi che operano nei settori vitali della sicurezza nazionale. In terzo luogo, la Cina ha annunciato che le esportazioni di gallio e germanio, due elementi fondamentali per i prodotti hi-tech, sono ora soggette a requisiti di licenza di esportazione. La Cina è il fornitore globale dominante di entrambi i materiali e il governo cinese può ora bloccare le esportazioni a sua discrezione. Il gallio, in particolare, è fondamentale per molti tipi di tecnologia dei semiconduttori.

Questa “guerra tecnologica”, è evidente, si inserisce in uno scontro molto più vasto, combattuto su fronti anche molto diversi: da Taiwan alla rivalità strategica in Africa alla guerra in Ucraina. Sinora l’amministrazione Biden, senza molto successo, ha cercato di mantenere nei rapporti con la Cina una posizione di compromesso. Da un lato, Biden ha più volte affermato di non “cercare un conflitto con la Cina” e di non mirare a un decoupling, a un disaccoppiamento tra le economie cinese ed americana. Di recente la segretaria al Tesoro Janet Yellen è andata a Pechino e ha affermato che “il mondo è grande abbastanza perché i nostri due Paesi possano prosperare”. E un altro rappresentante di primo piano dell’amministrazione, John Kerry, è anche lui volato a Pechino nel tentativo, infruttuoso, di rimettere in moto la diplomazia sulla questione dei cambiamenti climatici.

Dall’altra parte, l’attitudine dell’amministrazione nei confronti di Pechino è stata ben più bellicosa. Nonostante le ripetute affermazioni di Joe Biden sul “no-decoupling”, un primo disaccoppiamento tra le due economie, in alcuni settori strategici come per l’appunto l’hi-tech, è iniziato. Nel tentativo di ridare fiato all’industria americana, Biden ha anche mantenuto le tariffe commerciali più alte decise da Donald Trump su 370 miliardi di dollari di beni importati dalla Cina negli Stati Uniti ogni anno. La Casa Bianca ha anche annunciato l’invio di forniture militari a Taiwan per 345 milioni di dollari (è la prima volta che le armi, come riconosciuto dalla stessa Casa Bianca, vengono prelevate direttamente dall’arsenale del Pentagono). E, sulla guerra in Ucraina, Washington non ha mostrato alcun interesse a coinvolgere Pechino in un’iniziativa diplomatica comune.

Sulla questione dell’hi-tech si innestano dunque le stesse tensioni e contraddizioni che segnano altri campi delle relazioni di Washington con Pechino. Biden e i suoi non possono infatti trascurare le richieste che vengono da buona parte del mondo politico e militare, preoccupato per l’espansione dell’influenza militare, politica, economica della Cina nel mondo. Lo ha detto del resto molto chiaramente in queste ore un funzionario della Casa Bianca, riferendosi all’ordine esecutivo di Biden. “Questa è una misura di sicurezza nazionale, non di sviluppo economico”, ha spiegato. La sicurezza nazionale confligge però con gli interessi e le attese di buona parte del mondo economico USA (in questo senso vanno viste le visite recenti a Pechino di Tim Cook di Apple, Elon Musk di Tesla, Jamie Dimon di JP Morgan, Laxman Narasimhan di Starbucks, oltre che quella di Henry Kissinger, eterno simbolo delle relazioni sino-americane). È un mondo economico e finanziario che mette in guardia sul fatto che la continua conflittualità con la Cina non porterà nulla di buono agli Stati Uniti. “Sul lungo termine, a essere danneggiato sarà soprattutto il mercato dei capitali americano”, spiega ancora Edith Yeung, general partner a Race Capital. Mentre altri fanno notare che la guerra commerciale a Pechino non sembra dare grandi risultati. Da un lato, le esportazioni della Cina in altre aree del mondo, dall’Africa al sud-est asiatico, sono schizzate alle stelle. Dall’altro, l’aumento delle tariffe commerciali non sembra aver offerto molti benefici ai manifatturieri USA.

La decisione di Biden sui prodotti hi-tech rischia dunque di essere un ulteriore mezzo passo falso da parte dell’amministrazione. Anzitutto, come fanno notare i repubblicani, l’ordine esecutivo è “pieno di possibili scappatoie” e può dunque rivelarsi inefficace rispetto allo scopo che si prefissa. In secondo luogo, esso dipende dal consenso e dalla collaborazione di alleati, soprattutto Giappone e Paesi Bassi, che non sembrano per nulla convinti della necessità di tagliare i propri legami commerciali con la Cina. In terzo e ultimo luogo, la scelta dell’amministrazione inasprisce ulteriormente i rapporti tra le due superpotenze, in un momento particolarmente difficile per l’ordine internazionale.