Scuola

Come ogni estate si parla di scuola: invece di facili risposte, riflettiamo su ciò che vorremmo

Questo è il momento dell’estate in cui, avendo esaurito gli argomenti “seri” e facendo troppo caldo per andare a caccia di notizie vere, i giornali e i tg decidono di parlare di scuola: grembiulini sì grembiulini no; compiti delle vacanze: troppi o troppo pochi?; a che serve l’esame di maturità se sono tutti promossi?; con 6 in condotta si è rimandati a settembre, pardon ad agosto, oppure no? vacanze lunghe d’estate o spezzettate durante l’anno alla moda del nord Europa?; cosa fare degli studenti indisciplinati e delle famiglie che aggrediscono il personale?; eccetera. Come se la scuola fosse solo questo e il chiacchiericcio degli “esperti” bastasse a riempire minuti video e pagine sui giornali: gli italiani frementi potranno leggere di scuola fra un bagno in mare e una gita ai laghi, per poi commentarli con i conoscenti al parco mentre si fanno portare a spasso dai cagnolini. Tanto quelli che non vanno in vacanza i giornali neanche sanno cosa sono, direbbe Elkann.

Nel filone si inserisce bene il ministro Valditara, poi non molto diverso dal suo predecessore Bianchi, entrambi più impegnati a dichiarare che ad ascoltare, confondendo la gestione del Ministero con la propaganda da due soldi. Sono lo specchio del degrado dell’Istruzione pubblica che, insieme al disastro della Sanità, ben rappresenta lo scadimento del paese, specialmente nelle sue articolazioni più sensibili.

Ora è partita una variante al pigolio. La lunga pausa estiva (14 settimane) fa discutere: “apriamo le scuole d’estate” dice chi le vorrebbe aperte anche la notte, purché siano altri a farle funzionare e altri ancora a pagare i costi; dall’altra parte si è già formato il fronte compatto di chi rivendica il diritto all’ozio rigenerante e al dolce far niente. A seguire opinionisti e moralisti che ci spiegano come mai non abbiamo capito niente, in un caso come nell’altro.

Invece l’estate sarebbe un buon momento per provare a rispondere con calma e pesante leggerezza alla domanda delle domande: a cosa vogliamo che serva la scuola? Più pomposamente: ruoli, funzioni e prospettive dell’istituzione-scuola. Perché il dramma sta proprio qui: una grande confusione di ruoli e funzioni, un miscuglio disordinato di tanti colori che si impastano in un risultato poco gradevole, a tratti inutile, certamente discriminatorio e velato di sciatteria quanto basta.

La scuola per “istruire” ha bisogno di insegnanti che conoscono la/le materie e le tecniche di insegnamento, disponibili a sperimentarne continuamente di nuove per raggiungere al meglio i risultati attesi. Per questo dovrebbero saper lavorare in gruppo e saper insegnare a lavorare per gruppi ai loro allievi, rifuggendo gli psicologismi di moda a favore di una accettabile preparazione pedagogica.

La scuola per “inserire” ha bisogno di un’organizzazione inclusiva a sua volta e di dirigenti che, assumendosi responsabilità, costruiscono fra i docenti quell’ambiente di cooperazione che richiede ordine nelle procedure e nei ruoli, comprensione e sostegno, curiosità e interesse verso l’innovazione e la sperimentazione. Da qui discendono le relazioni e i contatti col “territorio”, perché includere, inserire, accogliere è soprattutto questo: creare i presupposti perché anche i più disperati possano sentirsi a casa loro o comunque a loro agio. La cittadinanza comincia da lì, lo scarico delle responsabilità invece introduce nella scuola un vizio che genera sciatteria, paralisi e discriminazione.

La scuola per “educare” ha bisogno di essere riconosciuta dalle famiglie. Per provare ad avvicinarsi a questo risultato deve, a sua volta, “riconoscere” le famiglie degli allievi: registrarne le istanze mettendosi in difesa solo quando non si può fare diversamente; realizzare la chiarezza nei programmi e nelle relazioni con gli allievi così che anche i genitori possano esserne parte.

La scuola per “crescere” ha bisogno di sperimentare: orari, aperture e chiusure, attività complementari, estive e invernali, nuovi approcci e modalità di apprendimento, socialità e loisirs. Ha anche tanto bisogno di partire dal fare (tatonnement, lo chiamava Freinet), dal provare, dal misurarsi con il problema, dal riflettere sulle difficoltà incontrate per capire come superarle, dal trarre utili indicazioni per la prossima tappa. Si cresce così, non compilando centinaia di schede fotocopiate o ripetendo l‘esercizio all’infinito.

Di questi temi – e molti altri collegati, alcuni anche leggeri – in passato se ne sono occupati docenti, sindacati, partiti politici, organizzazioni professionali. Tutti cercando di dare corpo alla volontà di modernizzare il paese rendendolo meno diseguale, anche attraverso l’istruzione. La scuola a tempo pieno nasce così, le 150 ore che hanno incentivato gli adulti a prendere la licenza media anche, lo stesso per l’apertura dei corsi universitari fino alle 21 per permettere agli studenti-lavoratori di frequentare e laurearsi. Cose di cinquant’anni fa, prodotti di una stagione di grande sviluppo economico e sociale del nostro paese, generati da uno slancio della parte più vitale della società che voleva coniugare lo sviluppo economico con la riduzione delle diseguaglianze e la costruzione di opportunità diffuse. Perché anche molti padroni preferivano l’operaio istruito, perfino quando scolarizzazione faceva rima con sindacalizzazione. Lo sapevano già allora che un sistema produttivo che vuole stare al passo dei tempi ha bisogno di manodopera sempre più capace in termini di cultura e di conoscenze tecniche. Di tutto ciò non è rimasto quasi nulla, perfino la formazione professionale statale è stata smantellata. Così oggi, visto che è chiaro che sugli immigrati bisogna investire per accelerare l’integrazione e la formazione al lavoro, il nostro paese arranca come mai prima, delegando alle cooperative una funzione che non sono in grado di svolgere.

Già, al depotenziamento dell’istruzione e alla marginalizzazione della scuola ci hanno lavorato proprio tutti. Ci volevano ignoranti, utili falegnami per briatori scambiati per imprenditori. Fingendo di dimenticare quanta conoscenza occorre per montare un condizionatore, una pompa di calore o realizzare un impianto idraulico. O anche solo per leggere un manuale di istruzione di una macchina, capirne il linguaggio e fare ciò che occorre. Combattere l’ignoranza e l’incultura è oggi perfino più rivoluzionario di cinquant’anni fa.

Ecco, sotto l’ombrellone e fra una facezia e l’altra, ragionare di tutto questo e di cosa ci serve che la scuola diventi sarebbe un bel discorrere. L’autunno è alle porte e sarà caldo.