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Per salvare l’Italia dalle alluvioni servono 26 miliardi: in 20 anni (e 14 governi) ne sono stati investiti soltanto sette. Ecco perché

L’Italia è il paese delle alluvioni cicliche e del rischio frane più alto d’Europa. Per prevenire queste calamità in 7mila comuni a “rischio idrogeologico” servono 26 miliardi di euro, ma in 20 anni (e 14 governi) ne ha usati solo sette, un quarto del necessario. Il dato è oggettivo, incontestabile. Scritto nero su bianco nelle ultime indagini della Corte dei Conti sull’uso dei fondi per questa “missione” dello Stato. Ma nulla lava i peccati e la coscienza di politici e amministratori locali come la pioggia. Il cambiamento climatico emergenza di altra natura e globale, diventa così l’ombrello perfetto per assolvere la classe dirigente di questo Paese dalla sua incapacità di governarlo. Sette miliardi in 20 anni cosa significa? Il dato, come detto, è desunto dall’ultima relazione annuale della magistratura contabile sulle “Misure per la gestione del rischio di alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico”. Risale al luglio scorso ma poco importa, perché quel dato è ormai “cristallizzato” in diversi rapporti dell’Ispra (ad esempio ReNdis 2020) che hanno ricostruito finanziamenti e interventi realizzati, appunto, dal 1999 al 2019. E che cosa dicono?

Dicono che oltre il 16,6 per cento del territorio nazionale è classificato a “maggiore pericolosità”, con 7.275 Comuni interessati dal fenomeno. L’Italia, per altro, risulta essere il Paese europeo maggiormente interessato da fenomeni franosi, con circa i 2/3 delle frane censite in Europa. Ma a fronte di questo in 20 anni sono stati finanziati solo 6mila progetti per 7 miliardi “mentre – recita la relazione dei magistrati contabili – l’importo complessivo di richieste pervenute nel medesimo periodo, che si può considerare una stima del costo teorico per la messa in sicurezza dell’intero territorio nazionale, risulta pari a 26 miliardi di euro”. Seguono tabelle e dati sulle singole regioni ma il quadro generale è questo.

Chiara è poi la seconda causa dei ritardi, quella che sta a valle dei finanziamenti: a strozzare l’afflusso di risorse, la consegna delle opere è la tempistica degli interventi che hanno una durata media è di 4,2 anni, oltre la metà dei quali (57%) usati per la fase di progettazione, poi l’ingombro di quella amministrativa necessaria al percorso attuativo. A febbraio del 2022 la giunta dell’Emilia approva la graduatoria di 13 progetti di intervento per 17milioni (impianti sollevamento, ripristino funzionalità idraulica, sicurezza rete scolante, casse di espansione) tra Modena, Ferrara, Fidenza, Rimini, Sala Bolognese: tempi medi di consegna, 13-32 mesi. Per dire, con calma.

Tempi lunghi, ma anche fondi incerti. Tutte le relazioni sul tema dissesto battono sul tasto del decisore pubblico-politico che contribuisce a frazionare le misure secondo le responsabilità di spesa anziché una logica di priorità razionale, seguendo il rimpallo delle competenze tra strutture di missione centrali e periferiche. Classico l’esempio delle sovrapposizioni tra Dipartimento della Protezione Civile e del Ministero dell’Ambiente. Così. a lungo gli interventi per l’emergenza hanno avuto precedenza su quelli destinati alla prevenzione, che è come il cane che morde la sua coda.

Ed è su questo che i giudici contabili auspicano un cambio di passo col Pnrr benché abbia una “dote” minimale rispetto al fabbisogno: 2,4 miliardi di euro. La necessaria vigilanza sulle procedure di spesa e sugli obiettivi, costringe almeno il decisore pubblico a rivedere i criteri di attribuzione dei fondi, le modalità di riparto e così via che hanno caratterizzato per due lustri l’intervento pubblico in materia. Come?

I fondi per le misure sono divisi in 1,287 miliardi per l’attività ordinaria di investimento e promozione delle riforme in materia di rischio idrogeologico, di competenza del Ministero e con risorse già nel sul bilancio; gli altri 1,2 miliardi (comprensivi di 800 milioni di euro di risorse aggiuntive) sono assegnati al Dipartimento della Protezione civile per la gestione delle emergenze. Accanto agli investimenti, il PNRR prevede dunque una riforma finalizzata alla semplificazione ed accelerazione degli interventi di contrasto al rischio idrogeologico, al fine di superare le criticità di natura procedurale, legate alla debolezza e all’assenza di un efficace sistema di governance nelle azioni di contrasto al dissesto idrogeologico. E a che punto siamo?

Per il conseguimento dell’obiettivo di riforma indicato dal Pnrr (Milestone M2Cd-1) negli ultimi due anni sono stati emanati ben 10 provvedimenti tra articoli di legge e decreti veri e propri. Molti però sono rimasti sulla carta. Ad esempio la legge 233/2021 del governo Draghi: prevedeva (all’art. 16, comma 3) “l’individuazione Individuazione degli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico nelle regioni del centro-nord”. Non è stato ancora dottato il decreto attuativo della legge che converte la 186/2022 del governo Meloni, quella che stanziava 2,5 milioni per formare e reclutare personale a tempo indeterminato per “reclutare personale per potenziare le attività finalizzate a mitigare il rischio idrogeologico e rafforzare il contingente dell’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino meridionale”. Meglio dare la colpa al clima.