Calcio

Giuntoli e lo scudetto del Napoli: il suo è un trionfo umano più che l’opera di un guru tra talenti scovati, poche perdite e qualche errore

Tutti lo vogliono, tutti lo cercano. Nel ruolo di Figaro come uomo più desiderato della città pallone oggi c’è senza dubbio Cristiano Giuntoli. La stagione del Napoli da incorniciare da un lato rappresenta un unicum per la vittoria di uno dei massimi campionati europei da parte di una delle poche società a gestione familiare rimaste, dall’altro è senza dubbio un capolavoro del suo direttore sportivo. Un capolavoro per la capacità di prendere a una cifra infinitamente bassa un fenomeno come Kvaratskhelia, di scovare in Turchia un centrale portentoso come Kim Min-jae in un momento in cui i difensori centrali sono merce rarissima e sue erano state le intuizioni di Anguissa, altrettanto decisivo per lo scudetto, e dello stesso Osimhen protagonista assoluto. Naturale che oggi la bravura indiscussa del direttore sportivo del Napoli faccia gola a tutte le società: probabile che dopo 8 anni in azzurro Giuntoli si accasi altrove, forse alla Juventus per la rifondazione tecnica del club o in una squadra di vertice inglese. Ma magari resta a Napoli a fare quello che gli ha chiesto Aurelio De Laurentiis, continuare a vincere.

Attenzione però: il colpo Kvara è chiaramente il Santo Graal del direttore sportivo ma il modello Giuntoli è ben lontano dall’essere solo quello. Una dimensione prettamente umana, coi capolavori che nascono dall’errore e dalla capacità di rimediare e di provare e riprovare, piuttosto che da una banalissima aura da Re Mida del pallone che sarebbe pure deleteria e offensiva per il direttore sportivo toscano. Perché Giuntoli non nasce con l’aura del Re Mida, non gli regala niente nessuno, non cresce sotto l’ala protettiva di qualche big del settore ma prende a fare il diesse da dove ha lasciato da calciatore, in Serie D, e a dargli l’occasione è il Carpi di Bonacini.

Giuntoli è un direttore sportivo che conosce tutti. Ancelotti, che è Ancelotti, per raccontare un aneddoto della maniacalità del toscano, spiegò che prese un nome a caso di un calciatore di terza serie turca, buttandolo lì per provocarlo ricevendo in risposta ogni dettaglio, pure quelli privati, senza battere ciglio. Ma di questo bagaglio di conoscenze in D chiaramente te ne fai poco, specie se non sei una grande decaduta che si trova lì per caso. E allora il giovane Giuntoli punta più su quei dettagli privati, accennati prima nel caso del turco, che su piedini delicati e dribbling: gente motivata, che ha fame e carattere. E poi il piacere della scoperta, imprescindibile: Kevin Lasagna, Gaetano Letizia, Roberto Inglese, Riccardo Gagliolo, Jerry Mbakogu. Il Carpi di Giuntoli arriva dalla D alla A con pochi soldi, pochissimi, e tanta creatività.

A quel punto l’occasione della vita con la chiamata di De Laurentiis: un Napoli che sostituisce un profilo internazionale come Benitez con un allenatore con alle spalle un solo campionato di A, come Maurizio Sarri e un direttore sportivo con l’unica esperienza di Carpi. Inizia da qui il capolavoro che però va narrato per quel che è: come detto non l’esperienza di un Re Mida che fa diventare oro tutto quel che tocca (o osserva), ma una vittoria fatta di sacrifici, di esperimenti e anche di errori, diversi, e per questo ancora più esaltante probabilmente. Al primo anno infatti la campagna acquisti del Napoli si sostanzia in Hysaj e Valdifiori dall’Empoli voluti da Sarri, in Allan dall’Udinese per 15 milioni, in Chiriches dal Tottenham e Chalobah in prestito dal Chelsea più il ritorno di Pepe Reina dal Bayern. Uno splendido Napoli campione d’inverno arriverà stanco, per una forte discrepanza tra titolari e riserve: a gennaio arriveranno Regini in prestito e Grassi, pagato circa 10 milioni, che non giocheranno mai, e il Napoli perderà lo scudetto.

Sarà un tema ricorrente anche negli anni successivi, tra acquisti azzeccati e scelte errate: Zielinski da un lato, Diawara e Rog pagati più di 30 milioni dall’altro, la scoperta Zerbin in D a Gozzano contro Leandrinho dal Ponte Preta e Pavoletti a 13 milioni. Idem nel campionato dei 91 punti: in ingresso in estate solo Mario Rui (ed oggi c’è da sfidare chi dice che sia un acquisto sbagliato) e Ounas a 10 milioni, inequivocabilmente un acquisto sbagliato, con il solo Machach a gennaio e Politano sfumato così come lo scudetto. E si passa ancora per Malcuit a 12 milioni dal Lille, ma anche per Elmas a 16 milioni decisivo per lo scudetto (e che oggi vale almeno tre volte tanto) , così come Di Lorenzo, Rrahmani, pescati in provincia e diventati tasselli fondamentali per la squadra di Spalletti.

E in più la capacità eccellente di vendere, perché quando sei in una società che si autofinanzia e senza multinazionali alle spalle non puoi fare altrimenti: Inglese, Pavoletti, Zapata, gli stessi Rog e Diawara che pur essendo acquisti rivelatisi non utili hanno fruttato soldi o comunque non hanno generato perdite, cosa fondamentale in un calcio indebitato. E se è vero, come si dice a Napoli, che per fare le cose buone ci vuole il tempo l’ultima stagione è il coronamento di un percorso simile a quello di un buon ragù, togliendo “i pezzi” non più utili alla causa e aggiungendo gli ingredienti segreti, passando anche per l’esperienza dei ragù bruciati in passato, o troppo salati o troppo insipidi. Un trionfo umano dunque, fatto di sudore, fatica ed errori che vale molto di più dell’etichetta di guru e dell’aura di infallibilità che si vuole appiccicare oggi addosso a Giuntoli, che ora probabilmente passerà dalla dimensione del “per fare le cose buone ci vuole tempo” a quella del “tutto e subito”. Se l’accettasse sarebbe una sfida difficile certo, ma lo era pure portare il Carpi dalla D alla A. E il Napoli a vincere lo scudetto con un georgiano e un coreano sconosciuti.