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Maestri di sport – Valerio Bianchini, il vate del basket italiano: “La passione è nata tra i libri e l’oratorio. E da un torneo femminile”

Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)

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“Un’amica di mia madre lavorava in una casa editrice per ragazzi e mi portava a casa libri. Passavo ore a leggere. Vivevo più di immaginazione che di realtà. Allora mia madre, che era una donna di buon senso, mi portò in parrocchia per scoprire il mondo vero: gli amici e lo sport. Il calcio non mi piaceva granché, ma il basket mi affascinò da subito. Era straordinario andare al campo, imparare qualcosa da un allenatore e poi provare a metterlo in pratica in partita. Nacque così questa passione per la pallacanestro e per l’insegnamento”.

Valerio Bianchini, ottant’anni il prossimo luglio, è “il vate della pallacanestro italiana, non solo per quanto ha fatto dalla panchina ma anche per quello che è riuscito a divulgare su questo sport con i libri e oggi in parte pure sui social. Gli Ottanta sono stati i suoi anni migliori, durante i quali ha vinto tre scudetti (il primo nella storia a farlo con tre club diversi: Cantù, Roma e Pesaro), una Coppa delle Coppe (Cantù), due Coppe dei Campioni (Cantù e Roma) e una Coppa Intercontinentale (Roma). Nel 1998 con la Fortitudo Bologna ha conquistato anche una Coppa Italia. “Il primo stipendio da allenatore capo fu con una squadra femminile, Villa Santa, vicina ad Arcore, in serie B. Parallelamente veniva disputato un torneo tra gli istituti religiosi. Nelle partite della federazione le ragazze scendevano in campo con body molto più succinti di adesso, che invece sono inguardabili. Durante l’altro torneo, quello religioso, le ragazze vestivano camicie ampie e delle gonne lunghissime. Erano gli anni Sessanta, non c’era ancora la libertà sessuale: per loro il basket era uno sfogo”.

Poi l’incontro con Arnaldo Taurisano.
Taurisano mi chiese di collaborare al centro addestramento pallacanestro di Milano. Un luogo elitario, una scuola eccellente. Taurisano fu un genio dei fondamentali, anche per il modo che aveva di proporli ai ragazzi. Imparai l’essenza del gioco, soprattutto dal punto di vista individuale del giocatore.

Fece il suo vice a Cantù…
Lavorando con Marzorati, Recalcati, Della Fiori… Quando il coach lasciò, lo sostituii: ebbi la fortuna di trovare grandi giocatori. Riuscii a motivarli, ma spesso insegnavano loro a me. Nella finale di Colonia contro il Maccabi: la piccola Cantù diventò Davide che sconfiggeva Golia.

Il secondo scudetto?
Roma, 1983. Quarant’anni fa e non so nemmeno in quanti si ricorderanno di questo anniversario. Fu un triplice trionfo: scudetto, Coppa dei Campioni e Intercontinentale. A Roma si praticava moltissimo basket nel dopoguerra con gli americani, ma non aveva mai vinto lo scudetto. Con l’istituto di preti rimaneva miracolosamente in A grazie agli ex alunni o poco altro.

Come si è arrivati a questa impresa?
Il basket in Italia ha sempre seguito lo sviluppo industriale del Paese, sempre legato tanto alle sponsorizzazioni. La carne in scatola Simmenthal e i frigoriferi Ignis con il primo boom economico. La Sinudyne quando gli italiani scoprirono la tv, ma poi il basket è finito nelle banche… Quando intervenne il Banco di Roma, ci furono i mezzi per fare la squadra.

Nel 1988 lo scudetto di Pesaro.
Una grande scommessa. Gracis, Magnifico, Costa e Vecchiato li avevo già avuti in Nazionale. Attorno a quel nucleo dovevo trovare gli stranieri giusti… C’erano Aza Petrovic e l’ex Nba Ballard ma non mi convincevano a pieno. Così nel girone di ritorno li ho cambiati, fu un azzardo, la società non era convinta ma Daye e Cook migliorarono la squadra. Mi ricordo che a Caserta in riscaldamento un tifoso mi urlò: “Bianchini hai cambiato più neri tu di Moana Pozzi!”

Altri maestri?
Negli anni Sessanta feci l’assistente in B a Vigevano a Dido Guerrieri, uomo di grande cultura. Mi affascinò soprattutto quello, io che sono sempre stato curiosissimo di tutto. Conosceva il basket d’oltreoceano. Dido aveva amici che gli spedivano testi e lui li traduceva dall’inglese. Ho ancora due quaderni suoi, bella calligrafia su fogli a quadretti. Non teneva tutto per se stesso. Grazie a lui ci fu una contaminazione tra il basket italiano, allora all’avanguardia in Europa (in Jugoslavia producevano molti atleti e pochi allenatori) con le novità americane.

La rivalità con Dan Peterson?
Il confronto diede grande energia a entrambi. Lui ha dato alla figura di allenatore nuovi doti comunicative. Ci siamo divertiti molto ed enfatizzato la rivalità, in realtà siamo ancora amici. Abbiamo regalato molti titoli ai giornali.

Eredi ne ha?
Alcuni mi hanno superato mille volte. Io ho sempre avuto assistenti bravi. Per esempio Sergio Scariolo a Pesaro, oggi l’allenatore più titolato in Europa. Lui sostiene che gli ho trasmesso qualcosa, ma io facevo semplicemente quello che pensavo fosse giusto. Io butto il seme, poi il frutto lo devi dare tu.

La passione per i libri è rimasta?
Certo, per via di un trasloco ne ho appena regalato una bella quantità ad una associazione che fa beneficienza. Con mia moglie avevamo aperto una libreria a Roma. Ma in Italia con i libri è più difficile che col basket.