Diritti

Le donne in carcere sono poche e di scarso peso criminale: serve un modello di detenzione nuovo

Come Antigone, il nostro 8 marzo abbiamo deciso di dedicarlo a una particolare categoria di donne, quelle che vivono nelle carceri italiane. Abbiamo scelto infatti di presentare presso la Sala Zuccari del Senato “Dalla parte di Antigone. Primo Rapporto sulle donne detenute in Italia” [qui il documento].

Le donne in carcere sono solo il 4,2% della popolazione detenuta complessiva, meno di 2.400 persone. Se già di carcere in generale si parla poco e male, di loro si parla ancora meno. E non è su di loro, bensì sulla ben più ampia parte maschile della detenzione, che il carcere si è basato per consolidare il proprio modello detentivo. Le donne rimangono una minoranza troppo spesso dimenticata nelle sue peculiarità ed esigenze specifiche, che abbiamo voluto contribuire a far uscire dall’ombra.

Nei mesi scorsi con il nostro Osservatorio sulle carceri abbiamo visitato tutti i luoghi che recludono le donne: le sole quattro carceri interamente femminili che si trovano in Italia (a Roma, a Venezia, a Pozzuoli e a Trani) e che ospitano un quarto delle donne detenute, le 44 sezioni femminili collocate in carceri a prevalenza maschile che ospitano i restanti tre quarti e che a volte sono piccole o piccolissime (ci sono ad esempio cinque donne a Mantova, 4 a Paliano, due a Barcellona Pozzo di Gotto), le tre carceri minorili che ospitano ragazze (Pontremoli, interamente femminile, Roma e Nisida, con sezione femminile), le sei sezioni che ospitano detenute trans pur all’interno di carceri considerate maschili (sezioni spesso abbandonate a loro stesse, senza scuola, lavoro, attività culturali o sportive), i cinque Istituti a custodia attenuata per madri. Nel Rapporto raccontiamo uno per uno i luoghi visitati, dedicando uno spazio a ciascuno di essi. Ma raccontiamo anche i numeri, la vita interna, il lavoro, le attività, il sistema disciplinare, i suicidi, le madri e i bambini, le riflessioni su tanti temi diversi che ruotano attorno alla detenzione femminile in generale.

Le donne in carcere non solo sono poche – e lo sono da tanto, visto che il dato percentuale sulle presenze è stabile da decenni – ma sono anche di scarso peso criminale, con reati principalmente legati a piccoli furti e pene tendenzialmente brevi. Alto è il disagio psichico nelle carceri e nelle sezioni femminili: come mostrano i dati raccolti da Antigone, le diagnosi psichiatriche gravi e l’utilizzo di psicofarmaci sono percentualmente maggiori che per gli uomini.

Le donne detenute radicalizzano una serie di caratteristiche della popolazione carceraria nel suo complesso che sempre più sono rappresentate nella massa delle persone che la nostra società rinchiude in galera. Parliamo della massa, quella che produce i grandi numeri, che non è il nucleo di detenuti con un elevato spessore criminale. La massa della popolazione detenuta è costituita da persone che provengono dagli strati più marginali della società, che sperimentano povertà economica ed educativa, che vivono un’emarginazione che il periodo di detenzione non fa altro che approfondire, che presentano uno scarso spessore criminale e anche una scarsa pericolosità penitenziaria.

Ed è proprio affinché la detenzione delle donne possa, invece di emarginare ulteriormente, riempirsi di contenuti tesi alla reintegrazione in società che alla fine del Rapporto di Antigone, dopo questo lungo viaggio attraverso i luoghi delle donne in carcere, vengono avanzate dieci proposte per riformare la detenzione delle donne. La prima la andiamo muovendo da molti anni: che si istituisca all’interno del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria un’unità amministrativa autonoma, diretta da esperti in politiche di genere, interamente dedicata a occuparsi di detenzione femminile. Solo così si potrà avere quel bagaglio di competenze e di attenzione specifica che viene altrimenti schiacciato dalla ben più numerosa detenzione degli uomini.

Dallo scarso spessore criminale e dalla scarsa pericolosità penitenziaria si può e si deve ripartire per immaginare un modello di detenzione nuovo e più aperto, dove il tempo della pena acquisti direzione e significato, dove il raccordo con il territorio circostante sia capillare e continuo. Si può partire dalla detenzione delle donne per rovesciare l’ottica: rendiamola il modello cui parametrare il carcere, la regola dalla quale ripartire per vedere altrove l’anomalia, per vederla in un carcere inutilmente segregante e in una vita interna priva di contenuto.