Mafie

Campobello di Mazara, dove si mimetizzava Messina Denaro: bocche cucite. “Mai visto, siamo sorpresi”. Ma c’è chi dice: “Non siamo tutti così”

REPORTAGE - Al bar e nei supermercati, in tanti scuotono la testa o non parlano. "Se lo avessi visto per strada, non lo avrei riconosciuto e io lo conoscevo quando eravamo ragazzi", assicura qualcun altro. "Il paese ha un tessuto sociale che si dissocia dalla mafia", sottolinea Marcella Biancalani. E anche in un ristorante di Castelvetrano c'è chi sottolinea: "Esistiamo anche noi, parte di una fetta sana di questo paese"

Il manifesto di Marlon Brando nei panni de Il Padrino è l’ultimo dettaglio. Era lì, nel primo covo, quello di via Cb 31, dove viveva fino a lunedì Matteo Messina Denaro in piena latitanza. L’ultimo tassello di una storia che non si poteva immaginare più scontata. Don Vito Corleone è il riferimento ideale dell’ultimo dei Corleonesi, latitante da 30 anni, non in capo al mondo, ma nel cuore del suo. Quella Campobello di Mazara, costola della sua Castelvetrano, che da lunedì è un paese sotto assedio: Ris, Ros, Gico e infine anche la Polizia che scova un terzo covo, dove pare si nascondesse prima di trasferirsi nel primo, praticamente dall’altro lato della strada. La distanza tra i punti tracciati in questi giorni dalle forze dell’ordine è davvero poca. Lo è soprattutto quella tra la casa di Giovanni Luppino, l’autista che lo ha accompagnato lunedì nella clinica palermitana per le cure, che ha detto ieri agli inquirenti di non conoscerlo e il nuovo covo: casa di Luppino è al numero 262, l’ultimo covo, scoperto dalla polizia di Trapani, è al 260. Una palazzina di proprietà di Giuseppe Pacino, lontano da Campobello “almeno da quarant’anni”, dicono i vicini accorsi.

Tra loro c’è Francesco Guccione, vive proprio lì vicino, in una traversina: “Le dico in tutta sincerità che io non l’ho mai visto. Sembra davvero incredibile che proprio qui potesse avvenire tutto questo. Pensi che Andrea Bonafede lavorava in un lido in cui andavamo tutti, l’ho sempre considerato un tipo a posto. Mi creda, siamo tutti molto sopresi”. Guccione non si sottrae alle domande, non si irrigidisce, si presta invece a telecamere e taccuini con sincera voglia di dire “che siamo davvero a bocca aperta: sì avevamo pensato che potesse essere a Campobello ma non qui e non che girasse liberamente”. Girava liberamente? Gli investigatori stanno passando al vaglio ogni immagine registrata in tutto il paese. Ma intanto tra la gente si fa fatica a scorgere chi ha notato la sua presenza. Scuote la testa il proprietario di un bar in via Garibaldi, nel cuore di Campobello di Mazara: “Mai visto, non so niente”. E a scuotere la testa non sono pochi: nessuno, o quasi, lo ha riconosciuto prima, e in pochi, dopo avere visto le immagini dell’arresto, lo ricollegano a qualcuno di già visto. “È un piccolo paese, se entra un cane lì, se ne accorgono tutti”, indica però Salvatore Inguì, di Marsala, attivista di Libera, grande esperto di questo territorio. Un orologio di lusso, un montone come quelli che da queste parti si usavano negli anni ’80: l’aspetto del boss latitante così com’è apparso lunedì mattina nella clinica La Maddalena di Palermo, pare tutto fuorché sobrio.

“Se lo avessi visto per strada, non lo avrei riconosciuto e io lo conoscevo quando eravamo ragazzi, perché sono di Castelvetrano”, assicura il gestore della Coop del paese, aperta in un bene confiscato alla mafia, a pochi metri di distanza dalla caserma dei Carabinieri. Qui, forse, il boss veniva a fare la spesa. Con certezza lo diranno le immagini: lunedì mattina, proprio mentre a Palermo veniva circondata La Maddalena per catturare Messina Denaro, i Carabinieri entravano alla Coop di Campobello per sequestrare le immagini registrate dalla telecamera di video sorveglianza: “Ma sono andati dappertutto”, sottolinea il gestore del supermercato, che non vuol dare il suo nome. A darlo sono in pochi. L’assedio di forze dell’ordine ma anche l’attenzione mediatica regala a Campobello di Mazara una notorietà non sempre gradita. Un paesino di quasi 12 mila anime, qui da lunedì ogni giorno si scopre un nuovo covo dell’ultimo boss. È fatto di strade. Tante strade, grandi e piccole che si intersecano di continuo. Parallele, perpendicolari e quasi nessuna piazza. Non un luogo di vera aggregazione. Solo una lunga via centrale è l’unico punto nevralgico di questo pezzo di territorio, poco circolare e molto geometrico. Il pezzo di un puzzle: così pare guardandolo dall’alto su Google Map, così pare ripercorrendo le vie intorno al primo covo trovato dai Ros all’imbocco del paese: come può non averlo notato nessuno? Nel primo covo, in via Cb 31, una palestra chiude la viuzza e proprio ln fondo vive un carabiniere in pensione. Di lì passa per entrare a casa mentre i suoi ex colleghi presidiano il covo. Dentro, gli uomini del Ris stanno scandagliando tutto quello che c’è all’ombra del manifesto di Brando. Si cerca di rintracciare la rete di connivenze che ha protetto l’ultimo dei capi di Cosa nostra. E la rete è lì, in quell’intreccio di strade e stradine, in quel pezzo di puzzle. Dal covo di via Cb 31 si prosegue dritto per 500 metri, poi si gira a destra e due isolati più giù c’è la casa di Giovanni Luppino, l’autista che lunedì mattina l’ha accompagnato a Palermo per le cure. Martedì pomeriggio le imposte sono chiuse. Le luci spente. Sembra non esserci nessuno, eppure avvicinandoci alla grande porta di quello che sembra un garage si sentono delle voci. Asserragliati all’interno, almeno così pare.

Ieri sera era invece il nuovo punto nevralgico, assediato da poliziotti, scientifica e giornalisti, lì probabilmente si nascondeva il boss prima di traslocare. Ed è stato proprio un trasloco a indicare la strada ai poliziotti. Ritornando, invece, nella via principale che costeggia la stradina del covo, si imbocca il lungo percorso verso il centro: come prima cosa un bar, forse “il bar”, ma in questi giorni è chiuso per ferie. Segue, scendendo, un piccolo supermercato, di fronte un ristorante con un bel giardino esterno illuminato per Natale. Qui si inoltrava Matteo, non riconosciuto, neanche notato – almeno dai più – forse fino alla via Maggiore Toselli, una traversina della lunga strada che porta al centro. Una svolta a destra, un km più giù del covo, ed eccoci nel secondo bunker, lì da mercoledì c’è un nuovo presidio delle forze dell’ordine. Qui, dietro una parete è stato trovato, nascosto, un tesoretto fatto di argenti e gioielli.

Voltando ancora a destra, stavolta risalendo la strada, 300 metri più su c’è la casa di Andrea Bonafede, quello di cui Messina Denaro ha preso l’identità. Lo ha fermato un anno e mezzo fa circa e gli ha chiesto carta d’identità e codice fiscale. In queste stesse vie nelle quali girava indisturbato? Le indagini lo diranno con maggiore certezza nei prossimi giorni. Intanto si prova a ripercorrerle, ripetere le stesse tappe del boss. Nella via principale di Campobello c’è la casa di Alfonso Tumbarello, il medico di base che aveva in cura Andrea Bonafede, l’alias di MMD, adesso sospeso dalla loggia massonica Grande oriente d’Italia. Si suona al citofono ma nessuno risponde. Anche qui le imposte sono chiuse, le luci sono spente. Sembra disabitata. Eppure è stato facile trovarla: “Sa dove abita Tumbarello?”: “Certo, guardi, due portoni più su”. Un poco più in là si fa una pausa in un bar: “Non so niente, mai visto”. Il viso contratto, la testa che scuote. La conversazione finisce lì. Di Matteo Messina Denaro non si vuol parlare. Però di lui si legge. Nello stesso bar, andando alla toilette si scorge su un tavolino il Giornale di Sicilia aperto proprio sulla pagina che racconta dell’arresto del boss. Una volta fuori si prosegue verso la Coop, dove forse ha fatto la spesa. Mentre si parla col gestore, si avvicinano persone, qualcuno si parla all’orecchio, gli sguardi si incrociano. Ma nessuno ha visto. Nessuno ha riconosciuto. “Dalle immagini che ho visto mio cugino è esattamente com’era, solo invecchiato dagli anni. Mi sembra strano non lo abbia riconosciuto nessuno”, dice Rosa Filardo, figlia della sorella della madre del boss. “A me pare di averlo visto”, dice invece Marcella Biancalani, di Firenze, da 30anni a Campobello per amore. Si presenta con altri al covo di via Cb 31, per dire che “Campobello ha un tessuto sociale che si dissocia dalla mafia”. E così è anche a Castelvetrano, si cena di fronte a due donne che si lamentano: “Che imbarazzo, intervistano solo i più disperati raccolti per strada. Così ne viene fuori un’immagine terrificante”, si dicono. Ci si intromette: “Sì, ci dispiace perché Castelvetrano è anche altro ma non sappiamo se sia d’interesse mediatico”. Sono Manuela Accardi e Giuseppina Siena: “Scriva pure i nostri nomi, esistiamo anche noi”. Sono parte di una fetta sana che bilancia quella in cui nessuno ha visto, riconosciuto, mai notato l’ultimo dei Corleonesi. Il vero Marlon Brando.