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In Ucraina si parla di ‘decolonizzazione’: così si rischia un’economia asservita all’Occidente

di Roberto Iannuzzi *

Il conflitto ucraino è stato ripetutamente descritto in termini di una contrapposizione fra i valori di libertà e democrazia, difesi dall’Ucraina e dall’Occidente che la sostiene, e l’autocrazia e l’imperialismo che sarebbero incarnati dalla Russia. La schematizzazione della narrazione, la cancellazione delle sfumature, la rimozione dell’intricato retroterra storico favoriscono la mobilitazione politica e compattano l’opinione pubblica occidentale, ma al tempo stesso irrigidiscono le posizioni, radicalizzando lo scontro e precludendo ogni sbocco negoziale.

In accordo con questa narrazione semplificata, in Ucraina si arriva a parlare di “decolonizzazione” del paese dalla presenza imperiale russa, intesa come cancellazione di ogni influenza russa dalla cultura, dall’istruzione e dalla sfera pubblica in nome di una supposta “peculiarità” nazionale ucraina. Questo approccio trascura il fatto che Ucraina e Russia hanno, almeno in parte, condiviso secoli di storia e cultura comuni, e ha l’effetto di emarginare all’interno del paese tutti coloro che (soprattutto nel sud e nell’est) non si sentono alieni da questa condivisione di patrimonio e di valori.

Come ha osservato il sociologo ucraino Volodymyr Ishchenko, esiste anche un altro aspetto sotto il quale la cosiddetta “decolonizzazione” ucraina si distingue dal processo di emancipazione dagli imperi coloniali europei che ebbe luogo dopo la seconda guerra mondiale.

Gli stati emersi dalla lotta anticoloniale puntavano alla propria emancipazione economica, oltre che politica, attraverso una rivoluzione sociale e produttiva che intendeva rimuovere gli squilibri generati dalla dipendenza coloniale. Sebbene abbiano poi fallito, gli stati postcoloniali lanciarono una sfida tanto all’imperialismo quanto al modello capitalista che lo sottendeva.
Nel caso ucraino, come in quello di altre repubbliche ex sovietiche, si è assistito a un processo per certi versi opposto, con la transizione dal comunismo all’economia di mercato che, attraverso lo smantellamento dello stato e una fase di privatizzazioni a tappe forzate, ha visto l’emergere di una classe oligarchica che ha monopolizzato lo spazio politico ed economico di questi paesi.

L’attuale emancipazione ucraina dai residui legami economici con una Russia ormai anch’essa capitalista coincide con un’ulteriore ondata di privatizzazioni, deregolamentazione del mercato del lavoro e introduzione di incentivi volti a favorire le grandi multinazionali rispetto alle imprese locali considerate “corrotte”.

I piani di ricostruzione post-bellica non sono finalizzati a rafforzare lo stato ucraino, ma rischiano di creare un’economia asservita ai grandi capitali occidentali. La recente nazionalizzazione dei beni di alcuni oligarchi non sembra alterare in modo significativo questo quadro, destinato a portare al radicamento di nuove disuguaglianze.

A differenza delle battaglie anticoloniali del passato, dunque, la lotta di emancipazione ucraina non comporta alcuna trasformazione sociale in senso più egualitario e democratico, ma si riduce al perseguimento di politiche identitarie attraverso la negazione di tutto ciò che è “russo” nella cultura e nella vita del paese. In nome di una presunta “purezza” ucraina, si chiudono i partiti politici e si mettono a tacere le voci di tutti coloro che si oppongono a questo processo, accusandoli – spesso a sproposito – di essere “filorussi”.

Questa forma di identitarismo, peraltro, nasconde il fatto che l’Ucraina, sia prima che dopo la rivolta di Maidan del 2014, ha rappresentato uno dei modelli di minor successo fra le repubbliche emerse dal crollo dell’Unione Sovietica, con elevati livelli di corruzione, un parlamento disfunzionale e un’oligarchia che ha espresso tutti i presidenti degli ultimi anni, aiutando lo stesso Volodymyr Zelensky a giungere al potere.

I risultati economici conseguiti da questo modello sono stati deludenti. Con la transizione al capitalismo, l’economia ucraina si contrasse fra il 9,7 e il 22,7% l’anno fra il 1991 e il 1996. Il reddito pro capite crollò di quasi il 60% fra il 1990 e il 1997, per cominciare a risalire solo dopo il 2000. Ma ancora nel 2013, alla vigilia della rivolta di Maidan, rimaneva del 20% al di sotto dei livelli del 1990. Alla fine del 2021, poco prima dello scoppio del conflitto, il Pil pro capite in Russia era più del doppio di quello ucraino.

La tesi secondo cui l’Ucraina rappresenterebbe agli occhi degli stessi cittadini russi un’alternativa preferibile all’autocrazia di Mosca è dunque smentita dai fatti: prima del conflitto, erano gli ucraini che andavano a lavorare in Russia, a causa dei salari più elevati, piuttosto che il contrario.

In generale, le rivoluzioni che dal 1989 in poi portarono al crollo dell’Unione Sovietica furono motivate da sentimenti identitari e nazionalistici, più che da un vero afflato democratico. Prendere atto di queste realtà storiche sarebbe un importante primo passo per comprendere che la retorica dello scontro fra democrazia e autocrazia mal si adatta al tragico conflitto attuale.

Come ha scritto l’analista americano Ted Galen Carpenter, quella a cui stiamo assistendo in Ucraina non è una lotta esistenziale fra libertà e autoritarismo, ma uno scontro di natura eminentemente geopolitica fra Russia e Occidente. La ricerca di un compromesso negoziale sarebbe perciò più utile di un conflitto prolungato, alimentato da una retorica oltranzista, che comporta rischi crescenti di escalation.

*Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017).
Twitter: @riannuzziGPC
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