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Ucraina, il “metodo Nato” spinge la guerra nella terza fase: e Kiev ne esce avvantaggiata rispetto a Mosca

Il metodo dell'Alleanza Atlantica implica la possibilità per ogni sottoufficiale, nell' ambito dell' attuazione del piano di battaglia, di decidere circa l’impiego delle risorse, umane e materiali, che possono aiutarlo a risolvere il problema che ha di fronte. Le truppe di Putin non funzionano così: ogni decisione deve passare attraverso l' intera catena gerarchica prima che si trovi un responsabile che decida di assegnare le risorse necessarie, il che, come è facile da capire, anziché risolvere i problemi, li aggrava

Le armi e l’addestramento NATO sono stati decisivi questa estate in Ucraina. Tuttavia, si fa alla svelta a fare uno più uno e concludere che il “cambio di passo” mostrato dagli ucraini non abbia ragioni solo tecnologiche e che l’evidente rallentamento dei russi dipenda non solo dal calo quantitativo e qualitativo di uomini e mezzi: c’è un terzo elemento, importante quanto e più delle armi e del know-how per usarle. La NATO ha portato ai combattenti ucraini una rivoluzione nel funzionamento dell’organizzazione e nella mentalità delle stesse forze armate. Il “metodo NATO” implica la possibilità per ogni sottoufficiale, nell’ ambito dell’ attuazione del piano di battaglia, di decidere circa l’impiego delle risorse, umane e materiali, che possono aiutarlo a risolvere il problema che ha di fronte. Le truppe di Putin non funzionano così: ogni decisione deve passare attraverso l’intera catena gerarchica prima che si trovi un responsabile che decida di assegnare le risorse necessarie, il che, come è facile da capire, anziché risolvere i problemi li aggrava. Per fare un esempio, è la “sindrome” di cui soffrì il Regio esercito italiano durante la guerra del ‘15-‘18: il fatto che i tedeschi ne fossero immuni e che un sergente fosse in grado di decidere di testa sua divenne per noi molto evidente a Caporetto. Così i soldati russi si lamentano – e lo sappiamo grazie alle intercettazioni e ai cellulari trovati su morti e prigionieri- che, in fatto di perdite irrecuperabili (morti e feriti gravi), lo scenario di adesso è peggiore che in tre mesi di cruentissimi combattimenti urbani a Mariupol, di per sé la più funesta esperienza bellica per i Russi dalla Seconda Guerra Mondiale.

Ora a far male non sono le armi leggere ma l’artiglieria di Kiev: quella stessa che ha colpito l’aeroporto di Saki causando quella che, secondo le stime, è la più grande perdita di aerei e piloti russi in un giorno dal 1945. Ad aggravare la situazione – e a peggiorare l’umore– concorre il fatto che le perdite attuali sono state accompagnate da quasi due mesi di risultati modestissimi sul campo. Il processo decisionale russo impiega, in situazioni critiche, dalla mezz’ora alle quattro ore a reagire, mentre l’artiglieria ucraina, quando serve, in pochi minuti è subito sull’obiettivo. Insomma, ogni richiesta “urgente” deve salire i gradini degli alti comandi russi per trovare qualcuno che si assuma la responsabilità e, se c’è un fallimento, la colpa.

Anche se questo miglioramento non si applica all’intero esercito di Kiev, possiamo dimenticare la guerra come l’abbiamo vista nella sua seconda fase, dal ritiro russo dal nord dell’Ucraina fino alla caduta di Severodonetsk e Lysychansk: grazie alle armi, all’addestramento e al “metodo” degli occidentali, lo scontro è entrato nella sua terza fase. Così, col contributo dei sistemi antimissile, si moltiplicano le immagini di vecchi arnesi sovietici ma anche di moderni Kalibr abbattuti nei cieli dell’Ucraina. Certamente, lo “scudo” non è davvero perfetto: siamo lontanissimi dall’efficacia dello Sky Dome israeliano che abbatte oltre il 95% dei proiettili. Ma soprattutto il Cremlino ha ancora parecchie centinaia di missili ipersonici da impiegare: non parrebbe il vero ai “nemici” occidentali e agli “amici” cinesi che Putin facesse troppo uso delle sue armi migliori. Si moltiplicano anche le notizie di attacchi in profondità, ben oltre i 60-70 chilometri che i razzi degli HIMARS possono percorrere: se martedì 9 agosto è toccato all’aeroporto di Saky, posto a oltre 200 km dal fronte, giovedì 11 agosto è stato il turno di una base russa a Berdyansk all’incirca 140 km all’interno del territorio occupato e di una postazione di radar di importanza strategica a Zyabrovka, nel Sud della Bielorussia, che Minsk ha bollato come un “incidente”. La principale – e storica – base navale di Sebastopoli è pochi chilometri a Sud della stessa Saky e, a questo punto, non pare davvero più inattaccabile. Come spiegato da Phillips O’Brien, professore di Studi Strategici all’università St. Andrews in Scozia, “quello che stanno facendo gli Ucraini è estremamente importante. Dimostrando che possono colpire la Crimea” obbligano i russi a “proteggere una vasta area dietro le linee del fronte”. Con le piogge ma soprattutto le nevicate ancora lontane, non manca alle forze di Kiev il tempo per apparecchiarsi una situazione più favorevole prima del lungo inverno di guerra. A detta dell’ex comandante delle forze americane in Europa, generale Ben Hodges, emerge in questa terza fase del conflitto un’altra differenza: l’ attacco ucraino alla base aerea russa in Crimea ha colpito con precisione l’area militare, senza arrecare danni – salvo un enorme spavento- ai turisti russi, a differenza dei missili russi che ci hanno abituati a vedere colpiti obiettivi civili senza fare distinzioni. Ecco, questo elemento nuovo della terza fase, ci piace anche se non speriamo che sarà sempre così.