Calcio

Dybala e l’estate triste dell’imprescindibile che si è riscoperto superfluo. Ora il matrimonio con Mourinho per alimentare altrui rimpianti

Il ragazzino che era cresciuto con il mito di Ronaldinho si era ritrovato a essere fagocitato da Ronaldo. Tutti guardavano il portoghese. E lui si era ritrovato a variare il proprio stile di gioco al variare dell’ecosistema che gli girava intorno. Un dieci che lottava contro l’estinzione del suo stesso ruolo. Quella che doveva essere la sua Juventus è finita per essere la Juventus di qualcun altro. E ha deciso di andare via, solo che nessuno l'ha voluto sul serio. Tranne lo Special One

Niente riesce a trasformarsi in certezza come l’azzardo. Perché l’alea ingigantisce i sogni, dilata le speranze, calcifica nuove convinzioni. Anche a costo di confonderle con i desideri personali. La foto di Dybala che sbarca nel ritiro portoghese della Roma racconta una verità piuttosto complessa. È la certificazione dell’ambiziosità del progetto di Friedkin, dell’immutata capacità attrattiva di Mourinho. Lo Special One alza il telefono e tutti i giocatori rispondono presente. Così come era un tempo, è ancora adesso. Ma l’arrivo dell’argentino è anche la spia della dimensione internazionale di un attaccante che alla soglia dei trent’anni si ritrova a fare i conti con un presente molto diverso da quello che tutti immaginavano. Le ultime immagini di Dybala sono dominate da gocce d’acqua salata. Quelle che cadono dai suoi occhi nel momento di lasciare la Juventus.

Quelle che piovono dalla sua fronte durante gli allenamenti in stile marines a cui l’argentino si è sottoposto per tenersi in forma in attesa di una telefonata che non è arrivata. Nei suoi ultimi mesi a Torino Paulo ha assistito a un fenomeno particolare. La percezione che gli altri avevano di lui ha iniziato a scollarsi da quella che il giocatore aveva di se stesso. Il ragazzino che era cresciuto con il mito di Ronaldinho si era ritrovato a essere fagocitato da Ronaldo. Tutti guardavano il portoghese. E lui si era ritrovato a variare il proprio stile di gioco al variare dell’ecosistema che gli girava intorno. Un dieci che lottava contro l’estinzione del suo stesso ruolo. Quella che doveva essere la sua Juventus è finita per essere la Juventus di qualcun altro. Di Vlahovic, di Allegri, di Morata, di Chiesa.

Un talento cristallino condannato a dover dimostrare di essere sempre all’altezza delle aspettative altrui. E all’improvviso quello che doveva essere è diventato più pesante di quello che in realtà è stato. Così l’uomo che sembrava imprescindibile si è scoperto superfluo, sacrificabile. Anche se aveva sulle spalle il numero di Platini. Anche se nella peggiore stagione della sua storia recente aveva messo insieme 10 gol e 5 assist (solo in campionato). La sua è stata un’estate di solitudine, qualcosa di molto vicino allo status emotivo di “inutile e triste come la birra senz’alcool” uscito dalla penna di Enrico Brizzi. L’asta internazionale per accaparrarselo a zero non è partita. I contratti da firmare sono rimasti chiusi nei cassetti dei direttori sportivi. L’Inter è stata prima infatuazione e poi tradimento. Così Dybala ha finito per sfogliare una margherita che aveva sempre meno petali. Un personaggio in cerca d’autore che ha trovato in Mourinho l’unica vera possibilità per finire in un bestseller.

Il suo passaggio alla Roma è un trasferimento perfetto. Per il calciatore, per l’allenatore, per la squadra, per la tifoseria. Ma è anche un movimento di mercato che stona con quelle che erano le premesse della carriera di Dybala. La Roma ha chiuso al sesto posto in classifica. Senza mai aver lottato davvero per lo scudetto, senza mai aver lottato davvero per un posto in Champions. Ha vinto la Conference. Giocherà l’Europa League. Palcoscenici piuttosto diversi da quelli che Paulo era abituato a calpestare. Eppure è proprio questo che rende straordinario il suo arrivo a Roma. Dybala è diventato già sogno cittadino, uno strumento in grado di trasformare la sua rinascita individuale in una riscossa collettiva. Con lui in rosa la Roma sovverte le gerarchie sempre più scricchiolanti del calcio italiano, sogna di affacciarsi sul quarto posto che vorrebbe dire Champions League e ulteriori milioni da investire sul mercato. Mourinho non ottiene solo la pedina perfetta da incastrare in avanti fra Abraham e Pellegrini, una punta capace di andare in doppia cifra (solo tre giocatori hanno realizzato più di 5 reti nella passata stagione), di ballare con i suoi compagni di reparto, di parlare la loro stessa lingua, di trovare il gol da fuori area. Perché il portoghese ottiene il diritto di rivendicare la sua essenzialità nella scelta effettuata calciatore.

Dybala arriva a Roma perché Mourinho era arrivato a Roma prima di lui. E un allenatore che ha detto di venire subito dopo Dio non può che venire prima del suo club di appartenenza. Il club giallorosso e l’attaccante argentino si stringono uno all’altro per provare uscire da un periodo più difficile del previsto. Sembra il matrimonio perfetto, un idillio d’amore. Invece i coniugi sembrano guardarsi con sospetto. La clausola di rescissione da 20 milioni, se dovesse essere confermata, racconterebbe di una reciproca diffidenza. Il giocatore non si fiderebbe completamente della capacità della Roma di competere per traguardi ancora più ambiziosi. Il club non si fiderebbe completamente dell’integrità fisica di Dybala, che negli ultimi anni ha dovuto fare i conti con diversi acciacchi (nell’ultima stagione, comunque, ha giocato 29 partite, una in più di Zaniolo). Piccoli dettagli che, però, non cambiano la sostanza. Paulo in giallorosso era il miglior colpo di mercato possibile per entrambe le parti. Ma per diventare leader tecnico della squadra l’argentino deve fare pace con il suo passato, affrancarsi da un destino che lo vedeva predestinato. D’altra parte lo scriveva Cesare Pavese: “Ho trovato compagni trovando me stesso”. E questo vale anche per Dybala.