Diritti

“La potenza femminista”, in un libro le battaglie delle donne nel mondo a partire dall’Argentina: “Gli Usa dimostrano che la conquista dei diritti non è definitiva”

Veronica Gago è ricercatrice e docente all’Università di Buenos Aires. Fa parte del movimento Ni Una Menos e con il suo ultimo lavoro racconta, fra l'altro, la nascita e lo sviluppo dello 'sciopero femminista', nato fra i confini argentini nell’ottobre 2016 come risposta al femminicidio di Lucía Pérez (la foto in evidenza è di Irupé Tentorio)

“Il corpo delle donne è ancora considerato un terreno da conquistare. Ce lo ricorda quello che sta succedendo negli Stati Uniti dove una reazione conservatrice si è organizzata per frenare il femminismo”. A parlare al Ilfattoquotidiano.it è Veronica Gago, ricercatrice, docente presso l’Università di Buenos Aires e una delle voci più importanti del femminismo internazionale. Gago è una delle protagoniste del collettivo Ni Una Menos, movimento contro il femminicidio e la violenza sulle donne nato nel 2015 in Argentina. Nel libro La potenza femminista (pp. 336, 18 euro), tradotto e pubblicato in Italia nel 2022 dalla casa editrice indipendente Le Capovolte, analizza teorie e pratiche femministe, e la genesi dei movimenti di protesta nati in Argentina che poi si sono diffusi anche al di fuori dell’America Latina.

Gago, nel suo libro “La potenza femminista” ricostruisce come i movimenti delle donne hanno riempito le piazze di tutto il mondo, dall’Argentina al Cile fino ad arrivare in Italia. In particolare parla di uno strumento, lo “sciopero femminista” che si tiene ogni anno l’otto marzo, Giornata internazionale dei diritti della donna. A quando risale la sua storia?

L’esperienza inizia in Argentina nell’ottobre 2016 come risposta al femminicidio di Lucía Pérez (la ragazza, 16enne, era stata torturata, stuprata e uccisa da due uomini, ndr). È un appello all’organizzazione posto in un’assemblea, un momento in cui interviene un elemento di immaginazione contro la violenza. Negli anni è diventato un esercizio politico che ha permesso di parlare di violenza sulle donne in modo intersezionale, non limitandosi agli abusi fisici. Questa pratica ha inoltre favorito una discussione sul lavoro e la precarietà, sui salari e sui servizi di assistenza, perché ha coinvolto diverse tipologie di lavoratrici: ha unito chi ha un lavoro stabile, chi porta avanti un lavoro di cura e domestico, o è una sex worker. Ci ha messo in una posizione di lotta, levandoci di dosso la condizione di vittime in cui ci hanno sempre voluto intrappolare. Dal 2017 lo “sciopero femminista” ha raggiunto una dimensione internazionale. Anche se nato in Argentina, si è diffuso rapidamente in altri Paesi latinoamericani, è arrivato tra le donne migranti negli Stati Uniti, in Europa e in Italia. È diventato una pratica del rifiuto delle violenze e un esercizio del desiderio di organizzazione e mobilitazione.

Nel libro parla di “desiderio” come di una caratteristica della mobilitazione delle donne. Che cosa intende?

Il desiderio è una potenza molto specifica, è un’apertura alle possibilità, è qualcosa che si costruisce progressivamente. È una condizione che si apre, si espande. Introduce nuovi modi di comprendere i corpi, crea dinamiche di discussione. Destabilizza l’ordine patriarcale e supera i binarismi classici. Il femminismo rende politico il desiderio, lo rende desiderio di cambiare tutto.

In Argentina nel dicembre 2020 il Senato approvava la legge che rende legale l’interruzione di gravidanza. Fino a quel momento nel Paese era possibile abortire solo in caso di stupro o se la salute della donna era in pericolo. In che modo è stato raggiunto il risultato?
Il ruolo della campagna per il diritto all’aborto legale, sicuro e gratuito è stato fondamentale. È durata 15 anni e ha coinvolto settori diversi tra loro, come i sindacati e le organizzazioni di base. La campagna si è estesa, è diventata di massa, proprio grazie all’espansione del femminismo che ha rafforzato la militanza storica che si occupava di Ivg. Questa mobilitazione ha fatto sì che si sia iniziato a parlare di aborto in luoghi dove prima non se ne era mai discusso: nelle scuole, nelle organizzazioni contadine, nei quartieri popolari e più poveri, tra le popolazioni indigene. La campagna per l’aborto ha portato a discutere sulla sessualità, il desiderio, come sperimentare altri legami affettivi. La pressione esercitata dalle generazioni più giovani è stata fondamentale e, insieme a quella proveniente dalla strada, ha permesso di ottenere il risultato finale. Il fazzoletto verde, il pañuelo, ha sintetizzato e dato una identità al movimento. È diventato un simbolo.

Negli Stati Uniti la Corte suprema ha abolito la sentenza Roe vs Wade con cui nel 1973 si legalizzava l’aborto nel Paese. Come è stato possibile?
Stiamo vedendo in modo chiaro come i diritti non si conquistano mai in modo definitivo. I momenti di crisi sono quelli in cui vengono messi in discussione e in cui si torna indietro, si regredisce. Negli Stati Uniti è in corso una reazione conservatrice che sta sferrando un attacco contro il corpo delle donne considerandolo un terreno da conquistare. La proposta di sostenere e aiutare chi decide di abortire è una buona idea ma non è sufficiente. Credo che quanto successo in Argentina, in Colombia e in Cile possa indicare la strada per capire come organizzarsi anche negli Usa. Visto che a pagarne le conseguenze saranno le donne più povere, le migranti e chi vive in condizioni di marginalità, è necessario ricollegare l’aborto a una questione di classe. In Argentina ciò ha consentito di organizzare un dibattito pubblico e di legare la questione dell’aborto anche al lavoro, alla tutela delle risorse naturali e ai territori che si oppongono a diverse forme di estrattivismo. Sono spunti utili perché permettono di affrontare l’aborto non come una questione individuale ma collettiva.

*La foto in evidenza è di Irupé Tentorio