Calcio

Paolo Maldini, il Milan e lo scudetto: una questione di famiglia, nel nome del padre (ma anche del figlio)

La storia del dirigente del Diavolo ha solo due colori: il rosso e il nero. Gli stessi di papà Cesare, gli stessi del giovane Daniel, terzo uomo di casa a vestire quella maglia col tricolore sul petto. Eppure la storia milanista dell'ex capitano era partita con il bianco dominante di una giornata di neve a Milano

L’incipit della storia si perde in un passato remoto. Nella bolla di sapone di un ricordo un ragazzino se ne sta fermo in piedi su una distesa di neve. Sembra l’inizio di Cent’anni di Solitudine di Gabriel García Márquez, invece è la sua esatta negazione. Perché a condurre il ragazzo a conoscere il ghiaccio non è suo padre, ma un pulmino. L’inverno del 1985 è straordinariamente rigido. Freddo che spacca la labbra e sega le ossa. A Milano nevica incessantemente da giorni. Sembra di stare all’interno di una di quelle malinconiche sfere di vetro che si animano dopo essere state capovolte. La città è rannicchiata sotto uno strato bianco talmente fitto da rendere difficile anche la quotidianità. In alcune strade i fiocchi si sono accumulati fino a superare il metro di altezza. Il tetto del Palazzo dello Sport, inaugurato giusto nove anni prima, è crollato sotto il peso della neve. È allora che il padre del ragazzo riceve la telefonata.

Il Milan deve giocare a Udine. E per la prima volta ha bisogno di suo figlio. L’uomo si gira verso la moglie e dice: “E ora questo chi lo porta a Milanello?”. Le strade sono in salita. E lui ha paura di affrontarle ora che sono ricoperte di ghiaccio. La voce dall’altra parte della cornetta lo rassicura. Deve solo fermarsi all’uscita dell’autostrada, al resto ci penserà il pullman della società. È su quello svincolo che la storia prende una direzione inattesa, che la storia personale inizia a sovrapporsi a quella collettiva. Paolo Maldini ha appena sedici anni quando si incastra sul seggiolino della panchina insieme a Nuciari, Ferrari, Cimmino e Giunta. Lo aspetta un pomeriggio di gelo e di attesa, di emozioni vissute di riflesso. Almeno fino all’intervallo. Nils Liedholm manda a chiamare quello che per tutti è “il Figlio di Cesare”. Il ragazzo è una cascata di capelli scuri in cima a un corpo snello e lungo, quasi filiforme. Sulla schiena ha il numero 14, ma dal colletto della sua maglia rossa e nera sbuca una canottiera bianca.

“Dov’è che preferisci giocare?” gli domanda l’allenatore. “Io sono abituato a stare a destra”, risponde. Così sia. Paolo Maldini entra in campo all’inizio della ripresa. E gioca come se non avesse fatto altro nella vita. A Milano suo padre Cesare è appena uscito da San Siro, dove ha assistito alla partita fra Inter e Atalanta, e accende la radio. Ascolta i commenti sull’esordio di Paolo. E sono tutti positivi. Il giorno dopo il ragazzo è stremato. Come premio chiede di saltare un giorno di scuola. Fa il liceo scientifico e ancora non pensa al calcio come a una professione stabile. Vuole diplomarsi. Vuole cercare la sua strada. “Il giorno dopo il coronamento di un sogno – commenta la mamma, la signora Marisa – si può anche essere comprensivi con i ragazzi. Però da domani tutto deve ricominciare come prima. Scuola e allenamento“. Il rapporto fra Paolo Maldini e il Milan è tutto compresso in questa scena.

È qualcosa che trascende i soliti discorsi sul sentimento. È una questione di famiglia, di educazione, di destino. Suo padre Cesare ha giocato dodici anni per il Milan, vincendo quattro scudetti e una Coppa dei Campioni. Poi, dopo il ritiro, ne è diventato anche allenatore, alzando al cielo una Coppa Italia e una Coppa delle Coppe. Una vita intera spesa per il calcio, a lanciare talenti, a far crescere speranze. Eppure Cesare, che fa il vice di Bearzot in Nazionale, proprio non riesce ad accorgersi di quel talento che si aggira nel suo salotto. Paolo palleggia contro il muro. Incessantemente. Fino a sfinire gli altri. Fino a finire se stesso. “Io, anche per il mio lavoro, ero un po’ distaccato – ha raccontato Cesare – Ma sua madre e sua sorella mi ripetevano spesso: che bravo Paolo, ma che bravo. I suoi miglioramenti io li notavo in casa: il numero di Spalletti senza perdere una palla aumentava”. Poi un giorno la sorella segue Paolo al parco. Lo guarda giocare e inizia a scattargli qualche fotografia. Una dopo l’altra. Fino a finire un rullino intero. In quelli scatti Cesare vede qualcosa. Così gli chiede: “Vuoi fare un provino per l’Inter o per il Milan?”. La risposta è scontata.

A dieci anni Paolo si presenta a Linate per provare a entrare nelle giovanili. “Fu preso in consegna da un certo Braga che passava per essere un grande talent scout – ha raccontato Cesare Maldini al Corriere – ‘In che ruolo gioca?’, mi chiese e io risposi: ‘Fate voi’. Così come spesso succede lo misero all’ala. Io me andai per un’ora e mezza all’Idroscalo, non assistetti a quel provino. Quando tornai Braga mi disse semplicemente: ‘Si muove bene’. Però tempo dopo venni a sapere che si era già precipitato a telefonare in sede: ‘Fate firmare subito il figlio di Cesare‘”. È l’inizio di un rapporto che va oltre l’ordinario, che sfocia nella mitologia. Maldini e il Milan si rendono grandi vicendevolmente, fino a diventare due realtà coincidenti. È un legame così esclusivo che taglia fuori gli altri. A volte anche i tifosi del Diavolo. Il rapporto fra gli ultras e il loro simbolo è fatto di bassi preoccupanti.

Il 10 maggio del 1998 si gioca Milan-Parma. Maldini ha raccolto da qualche mese la fascia di capitano da Franco Baresi. Per il Milan di Capello è un momento delicato. In campionato chiude addirittura decimo. E perde la finale di Coppa Italia contro la Lazio. Il pubblico protesta in maniera feroce. Ha le spalle rivolte al campo da gioco. Si gira solo per lanciare arance, uova e fumogeni. E per esporre uno striscione: “Maldini, non sei il capitano”. Per Paolo è un colpo allo stomaco. “Un pubblico indegno”, dirà a fine partita. È l’inizio della fine, nel vero senso della parola. In diverse interviste, anni dopo, dirà che dopo aver vinto lo scudetto a Perugia, con Zaccheroni in panchina, preferì festeggiare negli spogliatoi con Costacurta piuttosto che con i tifosi in campo. Dopo la finale di Champions persa contro il Liverpool definisce “pezzenti” gli ultras che fischiano la squadra. Dopo l’eliminazione dalla Coppa Uefa del 2009 il capitano porta l’indice alle labbra per zittire il pubblico che fischiava i compagni. È un paradosso. L’uomo più rappresentativo del club è l’avversario numero uno dei suoi stessi ultras. Il suo addio al calcio si trasforma in psicodramma. Vengono srotolati striscioni che inneggiano a Baresi come unico capitano.

Ne seguono altri. E sono ancora peggiori. “Per i tuoi 25 anni di gloriosa carriera sentiti ringraziamenti da chi hai definito straccioni e pezzenti”. E ancora: “Grazie capitano, sul campo campione infinito, ma hai mancato di rispetto a chi ti ha arricchito”. Paolo osserva con la faccia sdegnata e commenta: “Sono orgoglioso di non essere uno di loro”. Il giorno dopo bacchetta la società. La accusa di non aver fatto sentire la propria voce per mettere fine a quello scempio. “È stata una profanazione, come saccheggiare da soli la propria storia”, scrive il giorno dopo Mario Sconcerti. L’esilio dura quasi 10 anni. Perché una frattura così profonda ha bisogno di tempo per ricalcificarsi. Prima rifiuta un ruolo nel Diavolo made in China. Poi nel 2019 diventa direttore dell’area tecnica rossonera. Decide di tirare dentro anche un’altra icona milanista come Zvonimir Boban. Ma la convivenza non funziona. I due hanno visioni diverse. Paolo vuole puntare sui giovani. Meglio spostare il traguardo più lontano ma arrivarci in salute. È una scelta che non piace all’ex centrocampista. Lo scontro diventa più acceso qualche tempo dopo. Maldini vuole confermare Giampaolo, protagonista di un avvio disastroso con il Milan. Boban è assolutamente contrario. L’impasse dura poco. Giampaolo salta. E al suo posto viene chiamato Pioli.

È una scelta che cambierà la storia recente del Milan. Soprattutto a maggio del 2020. I vertici societari sono pronti ad affidare la gestione sportiva del club a Rangnick. Il tedesco vuole però i pieni poteri gestionali. E rischia di eclissare la figura di Maldini. In un’intervista parla da nuovo dirigente milanista: “Maldini come giocatore è stato straordinario, ma non posso dire lo stesso da direttore sportivo: semplicemente, non lo conosco in questo ruolo. Da esterno ci si può chiedere se la proprietà è contenta dei risultati in rapporto al denaro investito negli ultimi anni. Io causa del divorzio tra Boban e il Milan? Dovete chiedere a chi rappresenta il club”. Maldini si batte per la riconferma di Pioli. È un riconoscimento al lavoro del tecnico di Parma. Ma anche al suo. “Prima di imparare l’italiano – risponde – Rangnick dovrebbe dare una ripassata ai concetti generali del rispetto, essendoci dei colleghi che, malgrado le tante difficoltà del momento, stanno cercando di finire la stagione in modo molto professionale, anteponendo il bene del Milan al proprio orgoglio professionale”.

Alla fine la scelta di Maldini si rivela quella giusta. Così come quella di lasciar partire Donnarumma per affidare la porta a Mike Maignan. Lo scudetto del Milan è soprattutto lo scudetto di Maldini. “Non ripeterei alcune cose che ho detto in passato – ha detto cercando di mantenere lucidità nel bel mezzo della festa per il titolo – quando diventi dirigente capisci tante cose. Dovevo essere più rispettoso verso le persone che hanno fatto tanto per il Milan. Nella vita si sbaglia, l’importante è imparare”. Ma questo scudetto è diventato soprattutto una tradizione. Daniel, il figlio di Paolo, è il terzo Maldini a essere diventato tricolore. Un sentimento che si trasmette di padre in figlio. E che parte da quel ricordo ancora nitido di un ragazzino su una distesa di neve.