Mafie

Giovanni Falcone, tutto quello che non torna sulla strage di Capaci 30 anni dopo. L’esplosivo, i buchi neri e i mandanti esterni (mai trovati)

I misteri sull'esplosivo usato nell'attentato, i dubbi sulle strategie seguite da Cosa nostra, l'incognita su una donna nel commando e sugli ignoti che manomisero le agende elettroniche del magistrato dopo la sua morte: ecco tutti gli interrogativi rimasti irrisolti a trent'anni dalla strage del 23 maggio del 1992. E che vengono raccontati nel podcast Mattanza

La domanda senza risposta se la pongono subito, ai più alti vertici dello Stato. “Senza invadere il campo di chi deve investigare e far giustizia, ci si chiede: ma è solo mafia, questa?”. E’ il 24 maggio del 1992, una domenica, ma il Parlamento si riunisce lo stesso. In calendario c’è l’ennesima votazione – la sedicesima – per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Quello scrutinio, però, viene rinviato: il giorno prima è stato assassinato Giovanni Falcone. Il presidente della Camera, Oscar Luigi Scalfaro, prende la parola per ricordare le vittime della strage di Capaci e decide d’infilare nel suo discorso quella domanda: è solo mafia quella? Trent’anni dopo una risposta ancora non c’è.

La versione pacificata – Sulle stragi, infatti, si è preferito incoraggiare una narrazione ufficiale senza punti interrogativi: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati ammazzati da Cosa nostra – e solo da Cosa nostra – in segno di ritorsione. Col Maxiprocesso avevano fatto inceppare il rodato meccanismo dell’impunità per i boss, che quindi si sono vendicati. Ma poi sono stati puniti: Salvatore Riina e Bernardo Provenzano sono morti in galera, Giovanni Brusca e gli altri hanno beneficiato di sconti di pena ma solo dopo essere diventati pentiti. Gli eroi sono morti, ma lo Stato poi ha vinto. Una narrazione tragica e piena di pathos, una versione pacificata dei fatti, perfetta per le fiction della tv. Ma che ha un problema: non corrisponde alla verità. E infatti rischia di crollare sotto il peso di quello che emerge dalle indagini e dai processi. Sulle stragi, infatti, esistono ancora oggi enormi buchi di trama che questa rassicurante narrazione si limita a omettere: mandanti esterni mai individuati, piste investigative mai battute, moventi molto più complessi della semplice vendetta. È mettendo insieme tutti questi elementi che Mattanza racconta le stragi del ’92. Il podcast prodotto dal Fatto quotidiano raccoglie interviste esclusive e testimonianze inedite di investigatori e testimoni, sopravvissuti e killer. Ma pure di chi quelle stragi le aveva predette.

Una stagione di presagi – Prima di diventare un anno di manette e tritolo, infatti, il 1992 è una stagione di inquietanti presagi. E’ il 22 di maggio quando un’agenzia di stampa semisconosciuta pubblica un articolo sulla corsa al Colle in cui s’ipotizza un “colpo grosso”, un “bel botto esterno” che giustifichi “un voto d’emergenza“, facendo fuori dalla corsa Giulio Andreotti – “politicamente deceduto” – in modo di arrivare ad avere “uno Spadolini o uno Scalfaro quirinalizzati”. Quell’agenzia si chiama Repubblica ma col quotidiano di Eugenio Scalfari non c’entra niente. Quella è solo una delle profezie che nel ’92 sembrano abbondare. Nei primi giorni di marzo un detenuto del carcere di Firenze invia ai giudici di Bologna una lettera in cui parla di una “nuova strategia della tensione in Italia” che sarà attuata nei cinque mesi successivi, fino al luglio del 1992. In quel periodo – sostiene – “accadranno eventi intesi a destabilizzare l’ordine pubblico” e cioè esplosioni che colpiranno persone “comuni” in luoghi pubblici, il sequestro e l’eventuale “omicidio” di un esponente politico della Dc, il sequestro e l’eventuale “omicidio” del futuro Presidente della Repubblica. Passano 8 giorni e ammazzano Salvo Lima, il viceré siciliano di Andreotti.

Il profeta delle stragi – Chi l’ha scritta quella lettera? Elio Ciolini, un uomo di estrema destra, condannato per il depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna. Come fa ad anticipare l’omicidio Lima, la strage di Capaci, quella di via d’Amelio? Come fa a parlare di esplosioni che colpiranno “persone comuni”, arrivando quindi a predire le stragi del ’93? Ciolini non è l’unico uomo di estrema destra che si muove sullo sfondo delle stragi del ’92. Paolo Bellini è stato recentemente condannato all’ergastolo in primo grado per la bomba alla stazione di Bologna. Si era infiltrato in Cosa nostra su ordine dei carabinieri: doveva recuperare opere d’arte rubate e in cambio offriva un miglioramento delle condizioni carcerarie per i mafiosi. Il suo “gancio” era un ex compagno di cella: Nino Gioè, uno che aveva fatto parte del commando di Capaci e che poi morirà in carcere, vittima di un suicidio che sa molto di omicidio. È Gioè che Bellini dice di aver contattato già nel dicembre del 1991, quando scende in Sicilia perché – sostiene – deve recuperare dei soldi. Deve andare a Palermo, ma per dormire sceglie di arrampicarsi tra tornanti e buche e fermarsi a Enna, la città più remota dell’isola, l’unico posto d’Italia dove in quei giorni nevica: che senso ha fermarsi lì?

La Falange, una firma sulle stragi – Proprio in quei giorni, a Enna, Riina raduna una serie di capimafia che hanno una caratteristica in comune: sono tutti iscritti alla massoneria. A loro il capo dei capi spiega che è arrivato il momento di punire i nemici storici e pure gli ex amici, quelli che hanno tradito. Bisogna destabilizzare i vecchi equilibri di potere, in modo che poi sarà più facile costruirne di nuovi. In una frase: bisogna fare la guerra per fare la pace. Poi aggiunge un dettaglio strano: gli omicidi e le stragi vanno rivendicati usando la firma della Falange Armata. È una sigla oscura che aveva esordito l’anno prima per rivendicare l’omicidio di un educatore carcerario a Milano. Poi ha seguito i delitti commessi in Emilia Romagna dalla Banda della Uno Bianca. Quindi spunta in Sicilia, a Enna, in bocca a Riina: chi gli suggerisce usarla? E perché poche settimane dopo il capo dei capi decide di annullare la missione romana, quella organizzata per eliminare Falcone nella capitale? Il giudice girava spesso senza scorta: Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano erano pronti. Poi però Riina cambia idea, richiama i suoi e spiega che bisogna tornare in Sicilia dove avevano trovato “cose più grosse”. Quali? Gaspare Spatuzza, uno di quelli che le stragi le ha fatte, individua in quel cambio di strategia un passaggio fondamentale: “La genesi di tutta questa storia è quando non si uccide più Falcone a Roma con quelle modalità e si inizia quella fase terroristica mafiosa, da lì non è solo Cosa nostra”.

La perizia sull’esplosivo – E dire che quella di Capaci viene considerata la più “ovvia” delle stragi. E invece è anomala: per eliminare qualcuno Cosa nostra aveva sempre preferito piani semplici e sicuri. Quello a Falcone, invece, è un attentato eclatante che richiede complesse competenze tecniche e ha un’alta probabilità d’insuccesso. Per trovare un precedente simile bisogna tornare al 1973, all’attentato compiuto dai terroristi dell’Eta a Madrid contro Luis Carrero Blanco, il delfino del generale Francisco Franco. La sua auto, però, marciava a passo d’uomo non a 120 chilometri orari su un’autostrada. Capaci è una strage che sembra compiuta da ingegneri. Ecco perché una pista mai battuta ipotizza la presenza di un secondo commando diverso da quello di Brusca: è la “teoria del doppio cantiere” e prende spunto da una vecchia perizia dell‘Fbi, che individua tra i detriti prodotti dalla deflagrazione tracce di pentrite e nitroglicerina. Sono sostanze chimiche che servono per potenziare l’esplosione, ma che non sono contenute nell’esplosivo da cava e in quello recuperato in fondo al mare che i pentiti raccontano di aver usato a Capaci.

Una donna nel commando? – Sempre i mafiosi spiegano di aver preparato l’attentato usando guanti da operaio. E allora perché a 63 metri dal cantiere vengono trovati guanti di lattice, come quelli che usano i medici? A cosa sono serviti? E a chi? Su quei guanti, infatti, i periti hanno trovato tracce genetiche riconducibili a una persona di sesso femminile. C’era dunque anche una donna nel commando di morte di Capaci? Probabilmente non lo sapremo mai. Sappiamo, però, che tra gli uomini che dovevano essere presenti, ne mancava uno: Pietro Rampulla, pure lui uomo di estrema destra, tra i principali esperti di esplosivi in Cosa nostra. Doveva essere lui, non Brusca, a premere il telecomando a Capaci: poi però, il giorno stesso, ha dato forfait, sostenendo di aver avuto un impegno. Può un mafioso annullare la sua presenza alla strage più delicata della storia della mafia chiedendo un giorno libero? “È un’assurdità, uno che avesse proposto una scusa di questo genere sarebbe stato ucciso”, dice Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo.

Le agende manomesse –
Non è l’unica assurdità. Per esempio: chi è che ha messo le mani nei computer di Falcone dopo la sua morte? Un mese dopo Capaci i supporti informatici custoditi nell’ufficio del magistrato al ministero vengono manomessi. Ad accorgersene è Gioacchino Genchi che all’epoca faceva l’informatico nella Polizia: vengono modificati i file su Gladio, la struttura paramilitare segreta attiva in Italia durante la guerra fredda. E pure alcuni appuntamenti che Falcone aveva segnato per un periodo successivo alla sua morte. Come un incontro con Pietro Giammanco, il suo ex capo con cui era entrato in rotta di collisione proprio a causa delle indagini su Gladio. È per i contrasti con Giammanco che Falcone decide di lasciare Palermo: perché, dunque, doveva rivederlo? Falcone non può più rispondere. Giammanco avrebbe potuto, visto che è morto solo nel 2018: nessuno però gliel’ha mai chiesto perché nessuno lo ha mai interrogato.

Quelle “persone importante” – Sulle stragi lo Stato ha smesso di farsi domande. Ha smesso di chiedersi, per esempio, chi erano le “persone importanti” con le quali aveva parlato Riina prima di ordinare le stragi. “Io mi sto giocando i denti, ho Dell’Utri e Berlusconi nelle mani e questo è un bene per tutta Cosa nostra”, avrebbe detto il capo dei capi secondo il pentito Salvatore Cancemi. Berlusconi e Dell’Utri, come è noto, sono stati indagati e archiviati a Caltanissetta con l’accusa di essere i mandanti esterni delle stragi di Capaci e via d’Amelio, mentre sono ancora sotto inchiesta a Firenze per le bombe del 1993. Al racconto di Cancemi, però, sembra fare cenno lo stesso Riina, che anni dopo in carcere è stato intercettato mentre parlava col suo compagno di ora d’aria: “Cancemi dice: che dobbiamo inventare che la morte di Falcone? Che ci devi inventare, se lo sanno la cosa è finita”, sono le parole del capo dei capi. Ma perché Cancemi doveva inventarsi qualcosa su Capaci? Sull’eliminazione di Falcone che cos’è che gli altri mafiosi non dovevano sapere? Trent’anni dopo quella domanda di Scalfaro è ancora lì.

*Quest’articolo è stato pubblicato sul mensile FqMillennium in edicola da sabato 14 maggio