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Moda sostenibile, quando lo è davvero? Ecco i criteri: “I brand del lusso hanno una grande responsabilità, non c’è prodotto sostenibile senza processi sostenibili”

Una recente ricerca della Ellen MacArthur Foundation ha rilevato che la produzione di abbigliamento continua ad aumentare e negli ultimi 15 anni è praticamente raddoppiata, nonostante il numero medio di volte in cui indossiamo gli indumenti sia diminuito del 36%. Ne abbiamo discusso con Francesca Rulli, ideatrice di 4sustainability, il sistema e marchio che attesta le performance di sostenibilità della filiera del fashion & luxury e autrice del libro “Fashionisti consapevoli. Vademecum della moda sostenibile"

Dalle magliette in cotone organico ai capi realizzati con gli scarti di produzione o con le plastiche recuperate dagli oceani. Dalle ricerche sui nuovi materiali riciclati al packaging compostabile. Ormai sentiamo parlare sempre più insistentemente di moda sostenibile, ma cosa si intende davvero con questo termine e quando possiamo definire davvero un brand o un prodotto sostenibile? Il tema è centrale, l’attenzione dei consumatori è in crescita, complice anche la pandemia che in questi due anni ci ha spinti a riorganizzare le nostre vite e ripensare alle abitudini, in primis quelle legate proprio all’abbigliamento. Il second hand sta conquistando una fetta sempre più ampia di mercato e il vintage è un trend. Non solo, anche le case di moda hanno avvertito la necessità di un cambio di rotta, con diversi brand del lusso che investono nella ricerca di nuovi materiali e intanto puntano sulla riscoperta e valorizzazione dei propri archivi storici per mettere il focus sul valore senza tempo del prodotto. Si pensi a Stella McCartney, pioniera della moda sostenibile, che usa pelle vegetale ricavata dai funghi o i più recenti progetti Gucci Vault, il portale-concept-contenitore voluto da Alessandro Michele che propone pezzi vintage e di seconda mano della maison fiorentina riportati all’antico splendore o rieditati, e Valentino Vintage. Eppure dai dati arrivano segnali poco confortanti: una recente ricerca della Ellen MacArthur Foundation ha rilevato che la produzione di abbigliamento continua ad aumentare e negli ultimi 15 anni è praticamente raddoppiata, nonostante il numero medio di volte in cui indossiamo gli indumenti sia diminuito del 36%. Ne abbiamo discusso con Francesca Rulli, ideatrice di 4sustainability, il sistema e marchio che attesta le performance di sostenibilità della filiera del fashion & luxury e autrice del libro “Fashionisti consapevoli. Vademecum della moda sostenibile” (Flaccovio).

Stiamo vivendo un momento storico molto delicato, usciamo da due anni di pandemia e dobbiamo fare i conti con una guerra potenzialmente mondiale. I costi delle materie prime sono alle stelle, le sanzioni frenano l’economia. I prezzi dell’energia fanno invocare una transizione alle fonti rinnovabili che doveva essere avviata molto tempo fa. Come si può inserire in questo contesto un impegno concreto del fashion system in chiave sostenibile?
L’industria della moda è tra le più inquinanti del pianeta. Tutti i settori più impattanti, moda inclusa, hanno avviato una transizione che procede però in modo lento e disomogeneo. È un periodo storico in cui i brand del fashion & luxury hanno una grande responsabilità, da leggere anche, secondo me, come una bella opportunità: quella di stimolare il consumatore, attraverso la progettazione e la produzione di capi, a scelte di acquisto (e di stili di vita) consapevoli. Ci sono volute una pandemia e una guerra, purtroppo, per far capire l’urgenza di nuovi modelli di business e di produzione. Di fronte alle enormi quantità di prodotti invenduti, alle interruzioni negli approvvigionamenti, all’impatto devastante dell’aumento dei costi delle risorse e alle connesse problematiche sociali, ci siamo trovati impreparati perché negli anni abbiamo investito troppo poco sia in termini di passaggio alle fonti di energia rinnovabili sia in termini di cultura aziendale favorevole alla transizione. A livello legislativo e finanziario, mi aspetto e voglio credere in un’accelerazione importante, che permetta di scalare dall’iniziativa di pochi imprenditori lungimiranti all’approccio sistemico. Strumenti e metodi sono pronti, tecniche di implementazione e misurazione sono settate e testate su tantissime aziende del fashion & luxury… Non resta che agire.

Che impatto ha avuto la pandemia da Covid-19?
Il Covid ha enfatizzato anomalie pregresse come l’over production, l’alto impatto ambientale del comparto, una distribuzione poco equa del valore e gravi carenze anche sul piano della responsabilità sociale. Gli effetti sono stati devastanti: le analisi della società di consulenza McKinsey parlano di un tracollo dei profitti pari al 93% nel 2020, dopo il +4% del 2019. Il mercato, però, ha saputo reagire e si sta riprendendo. Tra i driver fondamentali di questa ripresa della ripresa c’è senz’altro la sostenibilità, che oggi dobbiamo accertarci con sempre maggiore competenza, sia fatta sul serio, implementata con metodo e misurata scientificamente, per non diventare green e social washing. Ciò che più ci preoccupa è il tema ancora attuale della distribuzione del valore: molti dei costi e degli investimenti necessari per reggere l’impatto della pandemia e, più in generale, quello della transizione verso la sostenibilità, sono spostati a monte. A farsene carico è soprattutto la filiera di produzione e fornitura, chiamata a investimenti consistenti e assolutamente necessari che non sempre, però, il mercato riconosce. La logica del prezzo e del margine a tutti i costi è ancora troppo presente e lo si è visto bene in questi ultimi anni di pandemia. Come Process Factory, siamo impegnati da anni a supportare le aziende nel loro percorso di trasformazione. Abbiamo realizzato una ricerca, lo scorso anno, da cui emerge che le aziende che adottano framework di implementazione di progetti di sostenibilità come 4sustainability generano maggior valore e si dimostrano più resilienti. La scommessa è far sì che sempre più brand si convertano alla produzione sostenibile: maggiore sarà il numero e più armonizzata la loro azione, meglio la filiera produttiva riuscirà a sostenere gli investimenti.

Nelle scorse settimane abbiamo assistito a fashion week inevitabilmente sottotono: doveva essere il segno della ripartenza ma non è stato così: perché la carta della sostenibilità può rappresentare una svolta importante in questo momento per il mondo della moda?
Le rispondo con un’altra domanda: esistono altre carte da giocare? Fino a 7-8 anni fa, quando 4sustainability era davvero un’iniziativa pioneristica, parlare di sostenibilità come opzione aveva forse ancora un senso… Ma oggi è una strada obbligata e questo va detto subito per onestà intellettuale. A fare la differenza, d’ora in avanti, non sarà tanto la scelta della sostenibilità, ma il come si realizzano i progetti. Green e social washing, purtroppo, stanno aumentando anche a causa della mancanza di standard chiari e armonizzati. Di passi avanti ne sono stati fatti e il risultato è che oggi abbiamo metodi e strumenti per lavorare su tutte le dimensioni-chiave della sostenibilità: la tracciabilità degli impatto di filiera, l’eliminazione della chimica tossica e nociva dai cicli produttivi, la riduzione di uso di acqua ed energia e di emissioni in atmosfera, la cultura orientata alla circolarità e al design sostenibile, la sostituzione dei materiali con alternative più sostenibili, le buone pratiche a sostegno del benessere dei lavoratori e dell’efficienza organizzativa. 4sustainability® è nato per questo e su queste iniziative si fonda.

Ci spiega come è nato e come funziona 4sustainability?
4sustainability è un innovativo sistema a marchio sviluppato per supportare le aziende della produzione moda nella realizzazione di iniziative di sostenibilità mirate alla riduzione di impatto ambientale e sociale. Il sistema, come accennato, copre le sei dimensioni rilevanti della trasformazione del sistema produttivo del fashion con obiettivi 2025-2030, in coerenza con i più importanti commitment del mercato. Per chi ha avviato l’implementazione da anni, i risultati di riduzione sono oggi molto interessanti e ci spingono ad accelerare. Anche per questo, abbiamo impostato un percorso evolutivo del nostro sistema, che punta sulla digitalizzazione per renderlo ancora più strutturato, consistente e incentrato sui dati di filiera. L’idea è nata nel 2013 dall’incontro con Brachi Testing Services, un laboratorio storico specializzato nel settore per attività di controllo qualità, che colse allora i bisogni del mercato non più solo verso le performance di prodotto, ma anche verso le performance di processo. In collaborazione costante con loro, abbiamo sviluppato 4s CHEM, l’iniziativa volta all’eliminazione di tossicità dai cicli produttivi in linea con la metodologia da ZDHC (Zero Discharge for Hazardous Chemicals), la Fondazione più importante impegnata a livello globale su questo obiettivo.

Nel libro sottolinea l’importanza di fare chiarezza quando si parla di sostenibilità: facciamola. Quanto davvero l’industria della moda può essere sostenibile?
Sostenibile, oggi, è un termine davvero abusato: a dar retta a claim ed etichette, tutto è sostenibile! Ecco, cominciamo a far chiarezza su questo. Sostenibile significa “a ridotto impatto ambientale e sociale” e può essere riferito a un’azienda, a un prodotto, a un servizio… La materia è complessa, per cui non possiamo fidarci di affermazioni superficiali o vaghe. L’industria della moda può certamente ridurre il suo impatto sociale e ambientale, ma deve agire con metodo coinvolgendo necessariamente la sua filiera produttiva. Più esattamente deve: definire una strategia che affronti il tema in maniera sistemica orientandosi anche a produrre meno, ma meglio; scegliere fornitori in grado di portare avanti le stesse scelte di sostenibilità con azioni concrete e misurabili, supportandoli e valorizzandoli nei loro percorsi anche attraverso partnership ad hoc; stimolare il consumatore all’acquisto consapevole e, cioè, incentrato su informazioni credibili di sostenibilità, modelli di consumo più orientati alla durata del prodotto, al suo recupero, riuso o riciclo; agire da stimolo e supporto nei confronti di istituzioni e ONG affinché tutti gli sforzi siano orientati nella stessa direzione.

Molti imprenditori lamentano i costi di produzione già elevati: qual è impatto economico di una filiera sostenibile? E quale il costo della conversione?
Non parlerei di costo, ma d’investimento. È un distinguo importante, perché dietro ai termini c’è un cambio netto di prospettiva… Il valore dell’investimento dipende soprattutto dal DNA e dalla complessità del “viaggio” che si vuole intraprendere. Non a caso, il primo step del nostro lavoro con le aziende è un’analisi iniziale di sostenibilità: facciamo una fotografia della situazione di partenza per definire punti di forza e di debolezza e priorità di intervento. Chi ha iniziato il percorso da tempo, oggi beneficia già di ritorni dell’investimento sia in termini di mercato che di riduzione dei costi (acqua, energia, ecc.) oltre che di attrazione di competenze e talenti per l’innovazione e l’efficienza. In linea generale, se ogni anello della filiera produttiva realizza il suo progetto di trasformazione, lo sforzo si distribuisce. Ciò che più conta è che il brand spinga in questa direzione divenendo capace di riconoscere gli investimenti fatti dai suoi fornitori. Così ogni prodotto potrà garantire una vera riduzione di impatto e un numero crescente di filiere potrà convertirsi grazie a una più equa distribuzione di valore. Finché ci si limiterà a certificazioni spot di articoli e/o piccole collezioni su attributi singoli di sostenibilità, non otterremo un vero cambiamento del modello produttivo, non ne ridurremo gli impatti, né arriveremo a investimenti sostenibili perché supportati da ampie filiere produttive.

Come si può incentivare i brand, soprattutto quelli del luxury con lavorazioni particolari, a cambiare?
Diversi brand hanno definito chiaramente su cosa impegnarsi e come farlo. Alcuni importanti brand del lusso, in particolare, hanno fatto da apripista iniziando a mappare le loro filiere di produzione, senza fermarsi all’anello con cui hanno rapporti diretti di vendita ma arrivando ai subfornitori, ai sub-subfornitori e su, fino materia prima. Questo ha permesso loro di individuare le aree di rischio, raccogliere dati strutturati su cui avviare azioni di miglioramento, spesso supportando gli investimenti dei fornitori con interventi diretti, attività formative, strumenti, volumi di ordini e partnership. Il problema è che il mercato è enorme e poche realtà non riescono a generare un cambiamento sistemico: più brand seguiranno l’esempio, più veloce sarà il cambiamento.

Una filiera certificata come sostenibile potrebbe essere un valore aggiunto per il Made in Italy?
Secondo noi è proprio la strada da percorrere: il nostro è un sistema-moda ricco di processi e know how e il fatto che la normativa leghi il concetto di Made in Italy a una sola parte della produzione del bene è riduttivo. La tracciabilità e la trasparenza di performance di sostenibilità possono essere la chiave per aggiungere valore alle nostre produzioni, chiarendo bene, soprattutto, quando realmente si avvalgano di filiere italiane.

Lei lavora con le aziende ma ha deciso di scrivere questo libro per rivolgersi direttamente ai consumatori di moda. Che ruolo hanno gli acquirenti e i giovani in particolare?
La partita di traghettare il sistema moda verso modelli più etici di produzione si gioca soprattutto sul fronte industriale e normativo: le aziende devono innovare e collaborare fra loro allo sviluppo di soluzioni idonee a informare correttamente il consumatore, dotandolo di strumenti semplici per capire la differenza che passa tra un capo con attributi reali di sostenibilità – realizzato da un brand e da una filiera sostenibili – e un capo prodotto invece in barba all’etica e alla responsabilità sociale e ambientale. Detto questo, tutti noi come consumatori abbiamo il dovere di farci le domande giuste per acquistare consapevolmente. Peccato però che ci si trovi a fare i conti con la pressione dei social media, che ci dicono in tempo reale cosa indossano le celebrity e cosa, di conseguenza, andrà di moda. In pratica, Internet ci espone a un bombardamento di stimoli che favorisce e accelera il ciclo della moda veloce. Già nel 2017, un sondaggio evidenziava come il 41% dei giovani tra i 18 e i 25 anni senta la necessità di indossare abiti diversi ogni volta che esce di casa. Perché? Perché ogni outfit viene scrupolosamente documentato sui social e indossare gli stessi capi più di una volta è dunque fuori discussione. Discutibile, ma è quello di cui 1 giovane su 6 sembra essere convinto.

Da Stella McCartney a Giorgio Armani, Gucci, Valentino e non solo: in questi anni tanti colossi della moda hanno lanciato segnali forti con scelte concrete a favore del Pianta. Quanto è importante che siano i “big” a fare il primo passo per dare l’esempio?
Non è mia abitudine fare nomi, né distinguere tra lusso e fast fashion… Posso solo testimoniare per esperienza diretta l’impegno di diversi grandi brand internazionali nel trasformare il loro modello di produzione. Parlo di brand con filiere complesse che stanno portando avanti un percorso concreto di cambiamento. Non senza fatica, certo, ma con visione e coerenza. Il coinvolgimento dei fornitori è un passaggio imprescindibile, perché non c’è prodotto sostenibile senza processi sostenibili. All’ingaggio da parte dei brand, la filiera risponde in modo spesso straordinario ed è chiaro che mi riferisco soprattutto all’Italia dove i distretti tessili e moda sono in assoluto i più avanzati. Ci sono nomi del lusso che oggi stanno portando avanti grandi progetti, gruppi francesi e brand inglesi che su vari temi stanno facendo la differenza. Il loro lavoro sulle filiere è di esempio a molti altri operatori del mercato… Non dimentichiamo, infatti, che le filiere sono spesso comuni a più brand, quindi quando riducono l’impatto ambientale e sociale del modello produttivo lo fanno una volta e per tanti.

Quali sono i passaggi chiave della filiera produttiva su cui va ad intervenire per ottimizzarne la sostenibilità?
Oltre al protocollo 4s CHEM, di cui ho già detto, lavoriamo sulle altre cinque dimensioni-chiave della sostenibilità, in coerenza con i Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite e con gli obiettivi della Global Fashion Agenda.
4s MATERIALS, cioè la conversione all’uso di materie prime sostenibili: mappiamo le materie prime utilizzate, per ogni tipologia cerchiamo la sua conversione in alternative sostenibili e la misuriamo nel tempo.
4s CYCLE è lo sviluppo di pratiche di riuso che seguono il concetto di sustainable design, di riciclo… Tutte procedure che consentono di recuperare gli scarti di produzione e l’invenduto immaginando nuovi utilizzi, orientando l’azienda ad una serie di indici di circolarità.
4s PEOPLE riguarda la crescita del benessere organizzativo e della responsabilità sociale. L’obiettivo è quello di lavorare sui talenti, sul valore delle risorse, sul clima aziendale, sul creare produttività investendo sull’individuo, dopo aver assicurato le migliori pratiche sulla sicurezza sui luoghi di lavoro.
4s PLANET si prefigge di misurare il consumo di acqua, energia elettrica e le emissioni di CO2 – cioè l’impatto ambientale della produzione – in una logica di riduzione progressiva e misurabile.
4s TRACE, infine, lavora sulla corretta gestione degli impatti socio-ambientali dei processi interni e della filiera attraverso attività di valutazione, tracciamento, monitoraggio e miglioramento.