Diritti

Eutanasia, Consulta: “Referendum inammissibile perché sanciva piena disponibilità della vita a chi può dare consenso alla propria morte”

Secondo i giudici che hanno bocciato il quesito, quando viene in rilievo il "bene apicale" della vita umana, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente. E l'abrogazione parziale dell'articolo 579, avrebbe "privato la vita della tutela minima richiesta dalla Costituzione"

La Corte costituzionale ha bocciato il referendum sull’eutanasia perché, rendendo lecito l’omicidio di chiunque abbia prestato a tal fine “un valido consenso”, “priva la vita della tutela minima richiesta dalla Costituzione“. A sostenerlo è la stessa Consulta che, a dieci giorni dalla dichiarazione di inammissibilità, ha depositato la sentenza numero 50 (redattore Franco Modugno). Nelle motivazioni viene infatti argomentato che il quesito bocciato, prevedendo l’abrogazione parziale dell’articolo 579 del Codice penale (omicidio del consenziente), avrebbe reso penalmente lecita l’uccisione di una persona con il consenso della stessa al di fuori dei tre casi di “consenso invalido” previsti dal terzo comma dello stesso articolo: quando è prestato da minori di 18 anni; da persone inferme di mente o affette da deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di alcool o stupefacenti; oppure è estorto con violenza, minaccia o suggestione o carpito con inganno.

Così facendo, sarebbe stata sancita, al contrario di quanto attualmente avviene, “la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo“. Secondo i promotori del referendum invece, proprio i tre casi di “consenso invalido”, erano sufficienti per inserire i limiti. Stando invece alle motivazioni della Corte, l’approvazione del referendum avrebbe reso lecito l’omicidio di chi vi abbia validamente consentito, a prescindere “dai motivi per i quali il consenso è prestato, dalle forme in cui è espresso, dalla qualità dell’autore del fatto e dai modi in cui la morte è provocata”. La liceità sarebbe andata ben al di là dei casi nei quali la fine della vita è voluta dal consenziente prigioniero del suo corpo a causa di malattia irreversibile, di dolori e di condizioni psicofisiche non più tollerabili. La Corte ha rilevato che l’incriminazione dell’omicidio del consenziente, al di là della logica “statalista” in cui è stata pensata, risponde, nel mutato quadro costituzionale, allo scopo di proteggere il diritto alla vita, soprattutto – ma non soltanto – delle persone più deboli e vulnerabili di fronte a scelte estreme, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate.

Quando viene in rilievo il bene “apicale” della vita umana, ha precisato la Corte, “la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima”. Una normativa come quella dell’articolo 579 può essere pertanto modificata e sostituita dal legislatore, ma non puramente e semplicemente abrogata, senza che ne risulti compromesso il livello minimo di tutela della vita umana richiesto dalla Costituzione. Questa tutela minima non sarebbe stata garantita dalla punibilità nei tre casi, prima indicati, di consenso invalido. Le situazioni di vulnerabilità e debolezza non si esauriscono nella minore età, infermità di mente e deficienza psichica, ma possono connettersi, oltre che alle condizioni di salute, a fattori di varia natura (affettivi, familiari, sociali o economici), e d’altra parte “l’esigenza di tutela della vita umana contro la collaborazione da parte di terzi a scelte autodistruttive, che possono risultare, comunque sia, non adeguatamente ponderate, va oltre la stessa categoria dei soggetti vulnerabili”.

Sempre nelle motivazioni, i giudici respingono anche una delle “tesi sostenute dai promotori”, secondo cui “la normativa di risulta andrebbe reinterpretata alla luce del quadro ordinamentale nel quale si inserisce”. Ovvero che “il consenso dovrebbe essere espresso” nelle forme previste dalla legge 22 dicembre 2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) e “in presenza delle condizioni alle quali questa Corte, con la citata sentenza n. 242 del 2019”, ovvero quella legata al caso Dj Fabo\Cappato, “ha subordinato l’esclusione della punibilità per il finitimo reato di aiuto al suicidio”. A questo proposito, scrivono i giudici, “non può tacersi che tra le ipotesi di liceità rientrerebbe anche il caso del consenso prestato per errore spontaneo e non indotto da suggestione”.