Giustizia & Impunità

“La ‘ndrangheta nei cantieri ferroviari Rfi di mezza Italia”: 15 arresti. Faro sui principali appaltatori: “C’era piano per spartirsi commesse”

Stando alle indagini, numerose imprese intestate a prestanome e riconducibili alla cosca della 'ndrangheta dei Nicoscia-Arena di Isola di Capo Rizzuto avrebbero ottenuto in subappalto lavori che Rfi appaltava a 'colossi' del settore, come Generale Costruzioni Ferroviarie spa (Gcf) del Gruppo Rossi e il gruppo Ventura. Sequestrati oltre 6,5 milioni di euro. La pm: "Spesso nei cantieri operai senza competenze né abilitazioni, erano sfruttati"

Uomini vicini alle cosche di ‘ndrangheta avevano messo le mani “in uno dei settori strategici del Paese”, i lavori di Rete di ferroviaria italiana, attraverso un complesso sistema di “subappalti mascherati” che coinvolgeva anche le grandi società appaltatrici. E spesso gli operai che finivano nei cantieri non avevano “alcuna competenza professionale” e la documentazione che attestava la loro abilitazione era frutto di “falsificazione”. Non solo: il personale lavorava in “condizioni di sfruttamento”. È quanto ritiene di aver accertato la procura antimafia di Milano a conclusione dell’inchiesta che ha portato all’arresto di 15 persone – 11 in carcere e 4 ai domiciliari – e che vede coinvolti, come si legge nel capo d’imputazione, “gruppi imprenditoriali” che “gestiscono in regime di sostanziale monopolio l’aggiudicazione delle commesse per i lavori di armamento e manutenzione della rete ferroviaria direttamente da R.F.I. spa, a mezzo delle loro società (appaltanti) G.C.F. Costruzioni Generali spa, Gefer srl, Armafer spa, Globalfer spa, Salcef spa, Francesco Ventura Costruzioni Ferroviarie spa, Fersalento srl, Euroferroviaria spa”.

I lavori di manutenzione della rete ferroviaria finiti al centro delle indagini riguardano diverse regioni, in prevalenza Lombardia, Veneto, Abruzzo, Lazio, Campania, Calabria e Sicilia. Una ricostruzione, quella fatta dalla pm Bruna Albertini a valle degli accertamenti della Guardia di finanza, che la giudice per le indagini preliminari Giuseppina Barbara spiega di condividere solo in parte, motivo per il quale ha respinto 21 richieste di misure cautelare, attenuandone altre. La Dda aveva infatti chiesto i domiciliari per gli imprenditori Maria Antonietta, candidata poi ritirata di Pd-Leu-M5s alle Regionali in Calabria, Pietro e Alessandra Ventura, dell’omonimo gruppo, e il carcere per Alessandro e Edoardo Rossi, ai vertici dell’omonima impresa, ma la giudice non ha accolto le richieste e ha ridimensionato anche alcune accuse rivolte ad alcuni appartenenti alle famiglie Giardino e Aloisio, che con società a loro riconducibili lavoravano in subappalto.

Gli Aloisio, ad avviso del gip, sono ritenuti contigui alla cosca Nicoscia-Arena di Isola di Capo Rizzuto ad iniziare da Maurizio, Alfonso, Antonio e Francesco Aloisio. Per loro è stata accolta la richiesta dell’aggravante mafiosa, esclusa invece per i Giardino, non arrestati. Per gli imprenditori Rossi e Ventura, che restano indagati, così come per altre posizioni, “gli attuali esiti delle indagini – scrive il gip – non consentono” di “ritenere sussistenti gravi indizi di colpevolezza della partecipazione” all’associazione dei “fratelli Aloisio”. I quattro, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, hanno “dimostrato di sapersi inserire in modo spregiudicato in contesti imprenditoriali di rilevante spessore, riuscendo in breve tempo a diventare partner delle maggiori imprese operanti nel settore dell’armamento e della manutenzione di reti ferroviarie”.

Ma “dietro questa immagine ufficiale di imprenditori si nasconde – scrive il gip – il volto di uomini quantomeno contigui alla ‘ndrangheta, dalla quale mutuano metodi violenti per la risoluzione di controversie che possono insorgere sui loro cantieri o con gli operai che vi lavorano”. Gli inquirenti nell’imputazione per associazione per delinquere con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa citano anche un’intercettazione riguardante i grandi imprenditori: “Ventura ha tutta la Calabria, Morelli ha tutta la Campania ed Esposito ha tutta la Sicilia, Rossi ha tutto il Nord Italia”, dice Alfonso Giardino, indagato, a Maurizio Aloisio. Una conversazione su un presunto “accordo spartitorio” che insieme a una consulenza fatta svolgere dagli inquirenti, sottolinea il gip, potrebbero “eventualmente prefigurare altri reati, ancora da accertare, nelle procedure di aggiudicazione” ma che “non appaiono rilevanti per dimostrare che quegli stessi imprenditori partecipino ad un’associazione per delinquere” con gli Aloisio.

In ogni caso le società che prendevano gli appalti da Rfi, in particolare i gruppi Rossi e Ventura, ad avviso della Direzione distrettuale antimafia di Milano, si rapportavano col sistema del “distacco della manodopera” e “nolo a freddo dei mezzi” con gli Aloisio e i Giardino, quest’ultimi con “solidi ed attuali collegamenti con le storiche famiglie di ‘ndrangheta” di Crotone “alle quali sono ‘legati’ da indissolubili vincoli di parentela ed alle quali assicurano il costante e continuo approvvigionamento dei mezzi di sussistenza soprattutto allorché i loro capi trascorrono in detenzione carceraria”. I grandi gruppi che ricevevano gli appalti da Rfi, parte lesa, avevano quindi rapporti “con le numerosissime società a loro riconducibili ma fittiziamente intestate a prestanome”. Ad esempio i Ventura, secondo gli inquirenti, agivano nella “consapevolezza” di “avere come interlocutori famiglie legate ad un contesto criminale di ‘ndrangheta” e che “avevano subito pregiudizi penali, accettando di sottoscrivere gli accordi contrattuali con società per lo più intestate a prestanomi” e “addirittura istigandone la costituzione di nuove”.

Grazie alla possibilità di lavorare nei cantieri di Rfi, le due famiglie riuscivano anche “accrescere” il loro “potere” attraverso il “reclutamento dalla ‘Calabria Saudita’”, come si legge in un’intercettazione, “della pressoché totale ‘forza lavoro’ necessaria ad eseguire i lavori di cui alle commesse”. Così diceva Alfonso Giardino dice a Maurizio Aloisio: “Gli Aloisio e i Giardino danno da lavorare ed in questo modo… anziché essere contenti… ci invidiano e se ci potessero mangiare ci mangerebbero… ci ucciderebbero Maurizie’… ci ammazzerebbero”. Riguardo alla forza lavoro, scrivono i pm, gli operai venivano “distaccati dalle imprese di primo livello sui cantieri ferroviari”, ossia spostati per lavorare dalle società riconducibili alla ‘ndrangheta in quelle che prendevano gli appalti da Rfi, “sovente senza alcuna competenza professionale e previa falsificazione della documentazione attestante le necessarie abilitazioni.

Ma come funzionava lo schema, ad avviso di investigatori e inquirenti? L’inchiesta, scrive il gip, ha “accertato che alcune società riconducibili agli Aloisio e ai Giardino lavorano da anni stabilmente nel settore della manutenzione della rete ferroviaria” fornendo “manodopera alle grandi società vincitrici delle gare di appalto”. Un sistema che sfruttava gli “strumenti giuridici astrattamente leciti, che, secondo la prospettazione degli inquirenti, vengono utilizzati per aggirare i divieti in materia di subappalto, per pagare meno imposte, per garantire alle imprese coinvolte il procacciamento di fondi extracontabili, consentendo al contempo alla criminalità organizzata di infiltrarsi in uno dei settori strategici del Paese”, ossia “il funzionamento delle rete ferroviaria”. I subappalti, in sostanza, secondo l’ipotesi dell’accusa, venivano ‘schermati’ attraverso contratti di fornitura di manodopera specializzata, il cosiddetto “distacco di personale” previsto dalla legge Biagi. In questa maniera sarebbe stata elusa la normativa antimafia e le limitazioni in materia di subappalto previste per le imprese aggiudicatarie di commesse pubbliche.

Le società riconducibili alla ‘ndrangheta – secondo la Finanza e la pm Albertini – si facevano pagare dalle vincitrici degli appalti per il “distacco” dei loro lavoratori in quelle imprese, che intanto iscrivevano quei costi e ne traevano benefici fiscali. Coi soldi incassati, invece, le aziende in odor di ‘ndrangheta, stando alla ricostruzione, pagavano gli operai che lavoravano nei cantieri, ma “in parte” anche “fatture per operazioni inesistenti ricevute da altre società”. Si creavano così fondi “restituiti ‘in nero’ alle società” appaltatrici. E ancora: “Il provento delle attività di fatturazione per operazioni inesistenti viene in parte utilizzato” per il “mantenimento economico dei detenuti e delle loro famiglie” per dare “lavoro ai disoccupati in un’area particolarmente depressa del Paese e così rafforzando il prestigio della cosca”. Allo stesso tempo, gli operai “vengono fatti lavorare in condizioni di sfruttamento” e “senza poter avanzare alcuna rivendicazione, pena la perdita del posto di lavoro o subire violenze e minacce”, ad avviso del pubblico ministero. Anche questa un’impostazione che in parte la giudice non condivide, perché non basta la sola provenienza geografica, riassume, per indicare una situazione di svantaggio alla base dello sfruttamento.

Dopo la diffusione della notizia degli arresti e dell’inchiesta, Rete ferroviaria italiana ha diffuso una nota per informare di essersi “subito attivata nei confronti delle imprese coinvolte al fine di acquisire ogni elemento utile per valutare le più opportune iniziative” e sottolinea di aver “già avviato un lavoro per rafforzare le azioni contro i tentativi di infiltrazione criminale negli appalti e dà la sua piena disponibilità per aprire un tavolo con gli organi competenti e contribuire a trovare ulteriori soluzioni, ancora più efficienti e tempestive”.