Società

Djokovic, Berlusconi e la morale del più forte: ha ragione chi è ricco e spregiudicato

Mai come oggi, forse, l’impressione è quella di essere piombati in una società capovolta.

Quantomeno rispetto alla griglia di valori, norme e consuetudini su cui abbiamo costruito le cosiddette democrazie occidentali. Non è mia intenzione fare quella che Hegel chiamava “anima bella”, negando che le società di ogni tempo sono state abitate da contraddizioni assai poco etiche o morali. Ma oggigiorno assistiamo a un ribaltamento che vale la pena comprendere.

Mi avvalgo di due esempi principali. Un tempo, se un grande campione quale è Djokovic si fosse fatto forza della sua posizione di persona ricca, famosa e potente per ritagliarsi dei privilegi rifiutati a tutti gli altri comuni mortali, per di più avvalendosi di menzogne gravi e arroganti, il comune sentire dell’opinione pubblica non ci avrebbe messo molto a schierarsi contro il giocatore. Allo stesso modo, sempre un tempo fa (magari intorno ai primi anni ’90 del secolo scorso), se un pluripregiudicato per fatti di mafia e corruzione (oltre che di orge a pagamento con minorenni) avesse preteso di candidarsi alla Presidenza della Repubblica italiana, parlamento, mass media e opinione pubblica sarebbero insorti contro questo vulnus gravissimo che mina la credibilità e la rispettabilità del paese e delle sue istituzioni.

Nell’epoca sciagurata che stiamo vivendo, invece, il primo ricco, famoso e potente che pretende di violare le regole impunemente (il tennista), viene osannato da una larga fetta di opinione pubblica come eroe moderno, una vittima della cospirazione mondiale volta ad affermare una dittatura sanitaria su tutti noi.

Il secondo ricco, famoso e potente (il politico italiano), che pretende di passare con ammirevole leggiadria dai panni del mafioso corruttore e orgiasta (oltre che cultore di improbabili “nipoti”) a quelli di un Presidente della Repubblica garante della Giustizia, del rispetto delle regole politiche nonché della rispettabilità del paese, gode dell’appoggio di tutto il centro-destra e di buona parte della stampa e dell’opinione pubblica italiana. Al di là di tutto, la sua candidatura viene presa sul serio, se ne parla, come se già solo questo non costituisse un danno di credibilità a un’Italia che già di suo è mediamente infamata dalla corruzione, da una giustizia ingiusta, dal merito offeso e da una cultura del rispetto delle regole che risulta non pervenuta.

Sia chiaro, non credo che ci troviamo prevalentemente di fronte a una questione di ordine morale, perché penso che ogni morale diventi dominante in seguito al cambiamento dei rapporti di forza in ambito sociale.

Occorre piuttosto farne una questione politico-economica e, conseguentemente, ideologica. A risultare intollerabilmente dominante, ormai, è una morale del più forte, spregiudicato, ricco e potente – oltre che fuorilegge – poiché ad aver vinto quella che Marx chiamava “lotta di classe” è stata la fazione che su questi “valori” ha costruito la propria ragion d’essere e financo la propria vittoria.

Non è un comunista o un estremista a sostenere ciò, bensì uno degli uomini più ricchi al mondo (Warren Buffett), che ancora nel 2011 (lo aveva già fatto cinque anni prima) dichiarò testualmente al Washington Post: “Di fatto negli ultimi vent’anni è stata combattuta una guerra di classe, e la mia classe l’ha vinta… Se c’è stata una guerra di classe, l’hanno vinta i ricchi”. Ancora più eloquente il commento dell’intervistatore: “Se una guerra di classe c’è stata in questo paese, è stata condotta per decenni dall’alto contro il basso, e ad averla vinta sono stati i ricchi”.

In questa guerra, fra le vittime, c’è stata la Sinistra, ormai non soltanto incapace di elaborare una via di uscita dal capitalismo selvaggio, ma anche di affermare una cultura dell’uguaglianza, del diritto, dello studio e del merito.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti coloro che intendono vedere: non soltanto una società con intollerabili disuguaglianze e ingiustizie, o un’economia che distrugge il pianeta mentre strumentalizza integralmente l’umano. Ma anche un’opinione pubblica che – priva degli strumenti critici e culturali – in larga parte non sa come orientarsi. Arrivando ad appoggiare o a ritenere credibili personaggi che si fanno beffe della giustizia e della democrazia in virtù della loro ricchezza e del loro potere. Oppure credendo che il capitalismo cattivo sia quello della scienza, dei vaccini e della ricerca contro il Covid-19, invece di quello che quei virus li genera sfruttando in maniera sconsiderata il pianeta e gli animali che lo abitano.

Quando impareremo che, in realtà, ad averci affossato è il virus dell’ignoranza – connesso a quello dell’incapacità di elaborare un modello sociale e produttivo alternativo all’attuale – avremo compiuto un primo passo verso l’uscita da quella forma di “pandemenza” che fa molti più danni della pandemia.