Politica

D’Alema e Renzi hanno una cosa in comune: per loro la politica è manovra di palazzo

di Andrea Masala

Spesso il problema della politica siamo noi che andiamo dietro a un dibattito imposto e impostato dal giornalismo.

Da giorni infatti, dopo le dichiarazioni di Massimo D’Alema, ci sono bordate incrociate tra opposte tifoserie. A cosa serve? Assolutamente a nulla, se non a confermare le rispettive convinzioni, posizioni, posizionamenti. Eppure Matteo Renzi e D’Alema hanno un punto su cui sono molto molto simili: il concepire il primato della politica con la manovra di palazzo, totalmente avulsa dal sociale. Per l’uno e l’altro la politica si risolve in tattica politicista e rapporti con gli altri poteri formali e informali. Sindacato, associazioni, lavoratori, movimenti, corpi intermedi, società civile, opinione pubblica, vite comuni sono per entrambi delle perdite di tempo, intralci, primitivismi apolitici o pre-politici, scocciature, professoroni, gufi, iene dattilografe, utopismi. La tessera del sindacato sta alla politica come il gettone all’iPhone.

È una concezione tatticistica e politicante, senza respiro sociale e culturale, l’autonomia del politico diventa autismo, che non sa trarre linfa dalla ricchezza della società e non sa darle risposte. E questo tatticismo, mentre mezza Italia è assediata dallo tsunami Omicron, non vede altro ora che le manovre per il Quirinale e le convenienze che possono derivarne per l’uno o l’altro.

In quel discorso D’Alema dice bene un corno della questione: l’assurdo di un Mario Draghi che può decidere di candidarsi al Colle e di manovrare da lì un governo retto da un suo fedelissimo. Una roba che in Europa ha fatto solo Putin, insomma, molto al di là del semipresidenzialismo francese o dei cancellierati forti continentali. A occhio, è quello che chiedono Repubblica e Corsera: una situazione russa con un banchiere Bce al posto di uno del Kgb. E, contro questa deriva, D’Alema invoca un “ritorno della politica”.

E qui sta l’altro corno che invece D’Alema non vede. Perché l’altro corno è lui stesso, Renzi e la politica odierna, cioè quella senza partiti della seconda repubblica. Senza i partiti per come li intende la Costituzione. Da una parte abbiamo la tecnica, con gli iperliberali, che come sempre sono i primi a disfarsi delle regole e delle procedure liberali, il pilota automatico economico-istituzionale, il putinismo dalle buone maniere auspicato da Confindustria e grandi giornali (di Confindustria); dall’altra però c’è la politica scilipota, maneggiona, traffichina, la palude delle correnti, l’autismo asociale incapace di grandi progetti sociali e culturali ma bisognoso di sottogoverno clientelare e carrieristico, avido di nomine in CdA statali, parastatali, paraprivati e affini.

Stiamo, tra questi, incudine e martello e ognuno si schiera con le proprie ragioni: chi con l’incudine della fredda competenza e dell’illusione della neutralità della tecnica e chi con l’illusione della politica che fu e di quella autonomia del politico, che ormai è solo una delle tante corporazioni di un paese corporativo. Manca aria, manca un vento nuovo che spalanchi le finestre, in questi anni che apriamo le finestre per areare gli ambienti dal virus, in cui magari i nuovi cieli dalle finestre li vediamo, ma non sappiamo soffiarci nuovi venti nelle ali.