Diritti

Piergiorgio Welby, a volte morire è un diritto

Quindici anni fa è morto Piergiorgio Welby. Sì, uso il verbo più crudo che c’è, perché la morte non sempre è improvvisa, cruenta, temuta. A volte morire è una liberazione, una vittoria contro il dolore e non una resa. A volte morire è un diritto. E quando parliamo di eutanasia, questo diritto non sta in contrapposizione con quello alla vita, i due piani sono diversi. L’obbligo delle istituzioni di proteggere la vita non porta con sé un dovere di vivere che si antepone all’autodeterminazione di ciascunə, soprattutto se parliamo di vite colme di dolore, sofferenza, mali che chiunque di noi tenterebbe di rifuggire. Il diritto alla vita deve essere affermato con la lotta alle guerre, con la protezione dallo sfruttamento sul lavoro, con la contrarietà alla pena di morte, con il contrasto al femminicidio e in tutte le altre casistiche in cui chi perde la vita (esseri umani eh, non cellule) non ha in alcun modo prestato il suo consenso. Qui sta la differenza sostanziale.

Come si fa a parlare genericamente di “diritto alla vita” se quella di cui malatə irreversibili parlano non è la stessa vita che intende chi ribatte con la fede o con l’inviolabilità del corpo? Welby, affetto da distrofia muscolare, nei suoi scritti chiese più volte di interrompere i trattamenti che lo aiutavano a respirare artificialmente: “morire mi fa orrore, ma ciò che mi è rimasto non è più vita. Il mio corpo non è più mio. È lì squadernato davanti a medici, assistenti, parenti”. Squadernato. La prima volta che lessi questa parola – parecchi anni fa, scrivendo la tesi di laurea – rimasi immobile per qualche minuto. Chi mai userebbe un aggettivo così per parlare delle proprie gambe, del proprio viso, delle proprie mani? Squadernato. Perché si oggettifica, non appartiene più a nessuno, se non al dibattito scientifico e politico cui è appesa la propria esistenza. Squadernato. Fermo. Passivo. Disponibile a essere tutt’altro rispetto a come vorrebbe chi lo abita.

Ecco cosa mi viene in mente quando coloro che si oppongono all’eutanasia usano l’argomento dell’indisponibilità della vita. Indisponibilità dovrebbe essere quella di ogni paziente di farsi carico della fede e della morale di terze persone. E invece è un dito dietro cui nascondere l’incapacità politica di trovare argomenti più forti dell’autodeterminazione senza tirare in campo il sacro o il terrore, o entrambi.

Tre anni dopo la sentenza della Corte Costituzionale relativa al caso Cappato e Antoniani (Dj Fabo), la scorsa settimana finalmente è iniziata la discussione generale in aula per una legge sull’eutanasia. In realtà l’hanno chiamata “morte volontaria medicalmente assistita”, per non spaventare quellə che appena sentono “eutanasia” pensano che siamo nazistə. Il ddl ha subìto modifiche a più riprese rispetto al testo iniziale, tra queste c’è stata un’apertura alle destre e all’obiezione di coscienza per i sanitari. In questo modo potranno crearsi grosse lacune e disparità nell’accesso a un diritto, nonostante venga specificato – come per la legge 194 sull’aborto costantemente disattesa – che gli enti ospedalieri pubblici dovranno comunque assicurare l’espletamento delle procedure richieste dal/dalla paziente.

Nel dibattito in aula, l’On. Varchi di Fratelli d’Italia ci fa sapere che dopo questa legge si potrebbe sfociare nello “sbarazzarsi – dice proprio così – di anziani e disabili”. Nel testo però sono descritte chiaramente le condizioni per l’accesso all’eutanasia: patologia irreversibile e prognosi infausta, che causi sofferenze fisiche e psicologiche; paziente tenutə in vita da trattamenti sanitari di sostegno vitale, la cui assenza condurrebbe alla morte; di maggiore età, capace di intendere e di volere e adeguatamente informatə. Non è che approvata la legge facciamo fuori – per usare il linguaggio gangsta di Varchi – gli over 75 e chiunque non rispetti i criteri abilisti di ciò che è “normale”.

Anche Forza Italia solleva dubbi con la voce dell’On. Bagnasco (a volte, nomen omen) secondo cui la vera compassione “consiste nell’accogliere il malato, nel sostenerlo nelle difficoltà, nell’offrirgli affetto, attenzioni e i mezzi sanitari e psicologici per alleviare la sofferenza“. Tutto questo c’è già. C’è e non basta. Ma non lo dico io, lo dice chiunque si sia fatto portavoce della battaglia per l’eutanasia da decenni, persone che l’On. in questione definisce “trappole emotive”.

Anche Welby fu una trappola emotiva? Pochi mesi dopo la sua morte, il Consiglio Episcopale Permanente scrisse che chi è favorevole all’eutanasia maschera l’interruzione di una vita con l’umana pietà. Cattolici, teoricamente compassionevoli per eccellenza, associano l’empatia a una maschera, a una scusa qualunque per coprire la cattiveria di un omicidio. Facciamo un patto, allora, se questo consente a chi lo vuole di morire con dignità. Facciamo che siamo noi il cattivo della storia, non ci interessa andare all’inferno… Mi spiace solo che – se mai dovesse esistere – di sicuro ci rincontreremo lì.

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