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Finanza sostenibile, tra tanta confusione e rischi di “bolla”. Solo un fondo classificato “Esg” su tre ha davvero un impatto sul clima

In assenza di definizioni e regole condivise è difficile studiare la reale portata del fenomeno. Unico dato certo è la forte crescita degli ultimi anni. Secondo la Banca dei regolamenti internazionali alcune valutazioni di titoli "Esg" appaiono eccessive lasciando presagire prossime correzioni. Il docente della Cattolica Del Giudice: "Gli operatori più esperti stanno vendendo"

Il problema di una “bolla dei prezzi” è che quando ci sei dentro è molto difficile rendersene conto. Quello che con il senno di poi appare ovvio e lampante lo è, spesso, molto meno nel presente. A maggior ragione quando nessuno sa bene di cosa sta parlando. Secondo le stime più inclusive i prodotti finanziari in qualche modo riconducibili ai criteri Esg (environmental, social, governance ossia ambiente, sociale e organizzazione aziendale) valgono oggi 35mila miliardi di dollari e rappresentano quindi il 36% dei patrimoni gestiti a livello globale. Tuttavia, se si adotta una definizione più stringente, il dato precipita a 2mila miliardi di euro. Bloomberg stimava nel 2019 che gli asset sostenibili valessero 12mila miliardi, uno studio degli economisti Fish, Kim e Venkatraman collocava l’asticella a 30mila miliardi. Uno dei grandi problemi del settore è, come si vede, l’incertezza definitoria che confonde molto le acque e rende complesso scandagliarle per chi deve analizzare il fenomeno. Eppure nel 2019 esistevano già 70 società che emettevano rating su prodotti Esg, peccato che ognuna lo facesse, e continua a farlo, con i suoi criteri.

“Oggi c’è una forte ambiguità definitoria e regolatoria che riguarda tutti questi prodotti. Esistono diversi rating non finanziari spesso difficilmente confrontabili tra di loro perché le domande da cui partono sono diverse” spiega a Ilfattoquotidiano.it Alfonso Del Giudice, professore di Finanza e direttore del master in Finanza sostenibile dell’Università Cattolica di Milano. Il docente ricorda: “Oggi i principali emittenti di obbligazioni green sono gli stati sovrani, le banche cinesi e, come curiosità, tra i privati troviamo Fanni Mae che poi li cartolarizza (istituzione finanziaria statunitense tristemente nota per il ruolo avuto nella crisi dei mutui subprime, ndr). L’Icma, ossia l’International capital market association, sta tentando di portare un po’ di ordine e nel 2018 ha proposto di introdurre una certificazione esterna ma, almeno per ora, non è obbligatoria e le banche cinesi non la utilizzano”. Non c’è solo la “E” che rappresenta l’ambiente. Nella “S” che definisce il sociale la confusione è, se possibile, ancora maggiore fa poi notare il docente.

L’Unione europea, avanguardia a livello globale del settore, sta cercando di disciplinare la materia ma per ora il quadro rimane piuttosto caotico. “Basti pensare che secondo uno studio recente, spiega Del Giudice, due prodotti su tre venduti come sostenibili non hanno alcun impatto effettivo sul contrasto ai cambiamenti climatici”. Il fenomeno del greenwashing (ossia la ripulitura verde, che avviene attribuendo patenti di sostenibilità che in realtà non si hanno) è pratica sempre più diffusa anche tra le grandi aziende e i colossi finanziari.

Quel che è certo è che i prodotti etichettati Esg aumentano e lo fanno velocemente. Anche utilizzando la definizione più stretta l’incremento è di dieci volte in cinque anni. I governi spingono in questa direzione e contribuiscono direttamente ad immettere sul mercato prodotti con vincoli di destinazione dei fondi a progetti sostenibili. L’etichetta “Esg” fa vendere, un po’ come il “Bio” sugli alimenti. E con tassi a zero e magri interessi offerti anche da asset rischiosi, l’industria del risparmio gestito ha cavalcato l’onda ampliando l’offerta di prodotti finanziari alla clientela. I rendimenti sono mediamente più bassi di quelli dei bond normali ma, almeno, si fa qualcosa per l’ambiente e per la società. Che poi questo sia vero non è sempre del tutto scontato. In Europa ogni anno tra il 6 e l’8% dei patrimoni gestiti “migra” verso Etf Esg, ossia prodotti finanziari che replicano la composizione di indici che includono solo titoli ritenuti sostenibili.

Lo scorso settembre la Banca dei regolamenti internazionali (Bri), una sorta di banca centrale delle banche centrali, ha lanciato un avvertimento. Molti di questi prodotti mostrano prezzi gonfiati rispetto al loro valore effettivo prospettando quindi una condizione di “bolla”. “Gli operatori più esperti del comparto hanno già iniziato a shortare (vendere i tioli sul mercato allo scoperto, facendoseli prestare con l’impegno di restituirli ad una determinata scadenza, un metodo per trarre profitto dall’eventuale discesa dei prezzi, ndr) alcuni prodotti Esg per cui hanno riscontrato una sopravvalutazione”, fa notare Del Giudice. Da qui a trarre conclusioni complessive sulla situazione del settore però ce ne corre.

La Bri si è spinta a paragonare la situazione dei prodotti Esg a quella dei famigerati titoli Mbs protagonisti della crisi dei mutui subprime del 2008. Ma, tutto sommato, la Banca dei regolamenti, che si occupa in primo luogo della stabilità del sistema bancario, è piuttosto tranquilla. I prezzi potranno anche scendere ma i danni li pagheranno soprattutto i risparmiatori. Appena l’1% dei bond in mano a banche europee ed assicurazioni statunitensi è classificato Esg. Nel caso dei fondi pensione statunitensi si arriva a circa il 4%. Questi dati, precisa la Bri, questi dati sottostimano la reale esposizione che avviene anche per via indiretta tramite azioni di aziende e quote in private equity, ma la situazione non è tale da destare al momento eccessivi timori per la tenuta del sistema finanziario.

Infine una considerazione più complessiva. Si tende a pensare che le aziende che si rifanno a criteri Esg tendano ad offrire ritorni migliori ai loro azionisti e creditori. I gestori utilizzano prodotti finanziari Esg come strumento per mitigare il rischio complessivo di un portafoglio, ritendendoli più sicuri di quelli ordinari. Uno studio degli economisti Aswath Damodaran e Bradford Cornell ridimensiona però questi assunti affermando che non esistono precise evidenze in tal senso. Più in generale dalla ricerca emerge una certa disillusione in merito alla corrispondenza tra generazione valore e responsabilità. “Le imprese non diventeranno più responsabili grazie all’introduzione di criteri Esg” si legge nello studio. Il valore, spiegano i due economisti è, come noto, dato dai flussi di cassa attesi nel tempo parametrati per il livello di rischio. Esiste uno scenario favorevole in cui i consumatori prediligono la sostenibilità e scelgono i prodotti di aziende Esg permettendo loro di conquistare fette di mercato e accrescere i ricavi.

Queste aziende in prospettiva riducono la possibilità di scandali e/o disastri ambientali e quindi il rischio complessivo dell’investimento. Esiste tuttavia anche uno scenario avverso in cui i consumatori scelgono prodotti che costano meno, privilegiando il prezzo alla sostenibilità e quindi “punendo” le imprese che si scelgono la via “buona”. Nelle conclusioni della ricerca si legge “La possibilità di guadagnare con i prodotti Esg ha reso consulenti, banchieri, gestori di fondi cheerleader di questi prodotti“. Secondo i due autori il meccanismo funziona meglio “al contrario”. Ossia, le imprese che si impegnano nella sostenibilità non sono particolarmente premiate dal mercato. Tuttavia le aziende “cattive”, nel momento in questa loro natura viene alla luce, subiscono inequivocabilmente una penalizzazione.