Ambiente & Veleni

Il pre-vertice sul clima: decarbonizzazione, soglia di 1,5 gradi e un fondo per i Paesi poveri. In attesa di Glasgow, dai “grandi” solo annunci

Gli esiti della Pre-Cop sono le parole pronunciate in conferenza stampa. Quanto meno è stato dato il senso della direzione e delle linee guida che dovranno condurre alla Cop26 in Scozia: uscita dal carbone entro il 2030 per gli Stati del G7 ed entro il 2040 per gli altri, imperativo di rimanere sotto 1,5° di aumento della temperatura, rivedere i contributi nazionali e stanziare almeno 100 miliardi di dollari per evitare disuguaglianza sociale, Ma non è ancora chiaro, per ciascuno obiettivo, chi sia dentro e chi sia fuori

Lavorare già dalle prossime settimane per arrivare alla Cop26 di Glasgow con una maggiore ambizione degli Ndc (i contributi nazionali per la decarbonizzazione), fare di più per mantenere il riscaldamento sotto la soglia di 1,5°, garantire il fondo per il clima da 100 miliardi di dollari ai Paesi in via di sviluppo e andare avanti con il libro delle regole (Rulebook) sull’Accordo di Parigi. In conferenza stampa il ministro della Transizione, Roberto Cingolani e il presidente della Cop26, Alok Sharma hanno raccontato di una comunione d’intenti. Sottolineando che i ministri sono stati “galvanizzati” dagli incontri con giovani delegati della Youth4Climate. Mentre dai ragazzi è uscito un documento scritto con proposte chiare, a raccontare quali sono stati gli esiti della Pre-Cop sono però solamente le parole pronunciate in conferenza stampa da alcuni dei protagonisti di queste giornate. Che hanno dato il senso della direzione (e dei ravvedimenti di alcuni Paesi), non chiarendo ancora, per ciascun obiettivo, chi sia dentro e chi fuori tempo massimo. Nei prossimi giorni verrà pubblicato un sommario dei punti salienti, una sorta di linee guida che dovranno condurre a Glasgow. Nel frattempo, il vertice dei leader del G20 che si terrà a fine ottobre, a Roma, sarà un altro tassello importante.

LA DECARBONIZZAZIONE – Il vicepresidente esecutivo della Commissione europea, Frans Timmermans ha detto che “non c’è più futuro per l’industria delle centrali a carbone. Bisogna solo chiedersi quanto ci vorrà”. “Sarei molto stupito se ci fosse ancora, dopo il 2040, un numero sostanziale di imprese di estrazione del carbone” ha detto, sottolineando però di non poter dare una data. Alok ha spiegato che durante la Pre-COP ci si è concentrati sui Paesi industrializzati: “I Paesi del G7 hanno garantito l’abbandono del carbone entro il 2030. Per gli altri Paesi dovrà essere il 2040”. Solo che per quella data, dice la scienza, potrebbe essere tardi. Si è affrontato il capitolo Cina, che di recente ha dichiarato che non costruirà più centrali a carbone all’estero. Cingolani e Alok hanno entrambi ribadito che Pechino vuole che alla COP 26 si aumentino gli impegni globali di decarbonizzazione. Ma si è parlato anche della posizione dell’Australia, tra i Paesi che si oppongono maggiormente alla decarbonizzazione e che potrebbe non essere presente neppure a Glasgow. Non è certo un buon segnale. D’altronde parliamo del Paese, dove carbone e gas valgono oltre il 25% dell’export e nel quale dal carbone si ricava circa il 60% dell’elettricità. E poi c’è il tema della transizione giusta, che riguarda in generale molti Paesi. Italia inclusa. “Il nostro obiettivo è ridurre le emissioni di carbonio, ma la transizione deve essere equa – ha spiegato Sharma -. I lavoratori del settore delle fossili devono avere sostegno e trovare nuovi posti di lavoro”.

LA SOGLIA DI 1,5 GRADI – “Già al G20 dell’Ambiente a Napoli – ha raccontato Cingolani – i rappresentanti cinesi mi avevano detto di comprendere che la decarbonizzazione è un obiettivo fondamentale e che bisogna rispettare l’Accordo di Parigi”. Ma fra luglio e oggi è arrivato il nuovo rapporto dell’Ipcc, secondo cui con gli attuali Ndc arriveremo a un riscaldamento di 3 gradi a fine secolo: “Da fine luglio il senso di urgenza è aumentato enormemente”. Di fatto se nell’Accordo di Parigi si sosteneva che era preferibile rimanere sotto 1,5° di aumento della temperatura, oggi la scienza ci dice che quello è un imperativo. Anche John Kerry, inviato del presidente Usa per il clima, ha detto: “Scendere ben sotto a un aumento di temperatura di 2 gradi, non significa ridurla di 1,9 o 1,7 gradi ma almeno di 1,5 gradi”. E ha sottolineato che “non tutti i Paesi debbono fare la stessa cosa, ma ciascuno deve fare la sua parte”. Se per i Paesi del G20 (che rappresentano l’80% delle emissioni globali e tra l’80 e 85% dell’economia globale) si tratta, infatti, di una priorità, alla COP26 si dovrà fare i conti con uno zoccolo duro di altri quattro, cinque Paesi che già a Napoli non hanno voluto assumere impegni chi sulla soglia di 1,5°, chi sull’uscita dal carbone. Ma la Cina sembra sempre più convinta della necessità di rimanere sotto 1,5°, mentre l’India ha già assunto impegni in questo senso.

I CONTRIBUTI NAZIONALI – “Al 2030 – ha spiegato il ministro britannico – dovremmo ridurre del 45% le emissioni di gas serra rispetto al 2010”. Solo che con gli Ndc attuali – è lo stesso presidente della COP 26 a sottolinearlo – avremmo invece un aumento del 16% delle emissioni al 2030. Per Sharma i contributi nazionali dovranno essere allineati all’obiettivo della neutralità climatica al 2050. Quella è la data per cui si sono impegnati i Paesi del G7 e il Brasile, mentre la Cina è ferma al 2060. “Fino a qualche anno fa solo il 30% delle economie mondiali – ha ricordato Sharma – si era posto un target di neutralità climatica, oggi lo ha fatto il 70%”. Ma è inutile presentare Ndc ambiziosi, se poi non c’è trasparenza. Cingolani ha dichiarato che c’è intesa anche su una “maggiore ambizione anche in relazione ai meccanismi di mercato descritti dall’articolo 6 dell’Accordo di Parigi, uno dei temi centrali in Cop26”. E questo naturalmente sarà possibile solo se si concordano regole robuste e trasparenti. “Per ottenere tutto ciò – ha detto – è necessario stabilire un sistema di regole chiare per il monitoraggio, reporting e revisione degli impegni”.

I FONDI PER I PAESI IN VIA DI SVILUPPO – Pilastro di questi giorni è stata la questioni della disuguaglianza sociale e, di conseguenza, dei 100 miliardi di aiuti promessi ai Paesi poveri, che dovrebbero fungere da stimolo per investimenti privati. Al momento ne mancano circa 20 all’anno, ossia 75 dei 600 promessi fino al 2025. “Sono fiducioso che manterremo l’impegno, ma serve l’intervento dei privati. Dobbiamo mettere a punto una agenda finanziaria – ha detto Kerry – per il dopo 2025 con un impegno non di miliardi ma di trilioni di dollari, da 2,6 ai 4 trilioni l’anno, e il sistema privato deve essere coinvolto in questo sforzo, centinaia di società nel mondo”. Sharma ha svelato qualche retroscena: “Dobbiamo mettere a punto un piano di erogazione mettendo d’accordo governo tedesco e canadese”. In questi giorni è stata evidenziata la necessità non solo di aumentare le risorse finanziarie, ma anche di renderle più accessibili e prevedibili nel tempo.

I COMBUSTIBILI FOSSILI – Capitolo importante è quello dei combustibili fossili. Il ministro Cingolani ha detto che c’è stata una dichiarazione molto chiara: “Sarà impossibile investire in attività correlate con i combustibili fossili”. “Cerchiamo di disincentivare qualsiasi investimento in ricerca ed estrazioni”, ha spiegato il ministro che, proprio in questi giorni, è sotto accusa per l’approvazione del Pitesai, che ancora non c’è. “Tuttavia – ha sottolineato – è impossibile raggiungere subito zero investimenti, perché la transizione implica che per un certo lasso di tempo ci sarà coesistenza tra rinnovabili e fossili”. Ed è qui che entra in gioco il gas. Rispetto alle bollette che aumentano, Cingolani ha spiegato che questo accade “all’80 per cento per l’aumento del prezzo del gas e al 20 per cento per quello del carbonio. Non si può dire che la transizione energetica aumenti il costo dell’energia”. Servono invece investimenti sulle rinnovabili. Ma anche qui per garantire continuità alla rete elettrica in un primo tempo servirà il gas. “Noi cerchiamo di investire sulle batterie per l’accumulo di energia, ma queste al momento costano cinque volte quello che costano le centrali a gas – ha detto Cingolani – sono fiducioso che in cinque anni queste tecnologie scenderanno di prezzo”. Farà prima il gas: “Speriamo che dopo il primo trimestre del 2022 saranno aperte nuove pipeline e torneremo a prezzi più ragionevoli del gas. Ma rimaniamo sulla strada dell’uscita”.