Società

“Abbiamo fondato un ecovillaggio diffuso e cambiato vita. Con la pandemia in tanti vogliono venire, ma non è stato facile”

Tutto è iniziato nel 2011 quando quattro ragazzi di Cuneo hanno rilevato una cascina dell'800 a Cherasco, nelle Langhe. Ora il gruppo è composto oggi da 5 nuclei familiari divisi in due frazioni, per un totale di circa 18 persone coinvolte. Continuano a svolgere lavori esterni oltre ad avere avviato un'azienda agricola. "Il nostro è un luogo per trovare nuove rotte"

Michela è mamma di due bimbi, parla 4 lingue e ha lavorato per 12 anni in Slow Food, associazione internazionale per cui lavora tuttora Michele, originario di Trieste, compagno di Barbara. Claudio, geologo, è un aggiustatutto, Stefano ha lasciato il suo lavoro da informatico e oggi si dedica all’agricoltura biodinamica. Barbara è arrivata in Langa, sarta, volontaria della Croce rossa, lavora in una cooperativa di abiti e oggetti. Oliver è fotografo, Elisa insegna in una scuola. Francesco ha visitato tantissimi ecovillaggi e poi è approdato qui. Si chiama ‘La Casa Rotta’ ed è il progetto agricolo e sociale partito nel 2011 da una cascina dell’800 ristrutturata “con le nostre mani” da quattro ragazzi di Cuneo. E che oggi è diventato un ecovillaggio diffuso a Cherasco, nelle Langhe.

“Volevamo creare un luogo dove le persone potessero sperimentare nuovi stili di vita – racconta Michela Lenta, una delle fondatrici –. Ci siamo incontrati una sera con una nostra vecchia amica, Arianna, dicendo che sarebbe stato bello fare un progetto sociale proprio qui, nelle Langhe”. Un luogo dove incontrarsi, dialogare ma anche imparare, progettare, sognare, esprimersi, bere, mangiare, suonare, fare arte, rilassarsi, ballare, coltivare, giocare.

Così, dopo aver individuato una cascina del 1800 in vendita, inizia l’avventura. “Mio figlio Tommaso la definisce la ‘Casa Rotta’. Questo nome ci piace, perché oltre a esprimere la rottura di una forma, oltre a dire lo stato in cui versava la casa, esprime il concetto di rotta, cioè direzione”.

Il gruppo è composto oggi da 5 nuclei familiari divisi in due frazioni, per un totale di circa 18 persone coinvolte. “Abbiamo recuperato materiali che sarebbero diventati rifiuti: piastrelle, finestre, porte interne, mobilio. Adattiamo, sistemiamo, usiamo materiali naturali come argilla, malte, paglia, legno. Dopo sei lunghi anni riusciamo a trasferirci”, spiega Michela. Nel 2015, poi, nasce il progetto agricolo su un terreno da otto ettari: “Non trovavamo terra da acquistare per dare il via a produzione orticola, cereali antichi, frutteto. Abbiamo preso una vecchia cascina: siamo al quinto anno di mutuo, ce ne mancano ancora un po’”.

La giornata inizia con una pratica di yoga, dalle 7 alle 7.30. Dopo il caffè “Tatawelo, un bellissimo progetto messicano che sosteniamo”, tutti al lavoro nei campi, a scuola, o sui propri impegni. Si ritorna alla sera o a pranzo: di solito la cena è il pasto che si fa tutti insieme. “La Casa Rotta si sta allargando e sta diventando un ecovillaggio diffuso. Ci sono i terreni, il casale, una casa agricola, 4-5 case in affitto e altre ancora da ristrutturare “se trovassimo delle famiglie in linea con i nostri pensieri”.

Il venerdì alcuni fanno il pane con le farine macinate dal grano biodinamico (“che dura tutta la settimana”, sorride Michela). Il sabato ci sono i mercati. La domenica gli eventi (“quando si poteva”), gli open day per i più curiosi, i corsi, le lunghe passeggiate con i bambini o i lavori di manutenzione.

Con la pandemia tante persone chiamano per conoscere il progetto e cambiare vita. “Eppure non è stato facile”, continua Michela. “Molti di noi hanno lavori esterni, ci piacciono e non potremmo vivere solo di agricoltura – mette in chiaro –. In più facciamo corsi su agroproduzione, biodinamica, sostenibilità, agricoltura biologica e naturale”.

Quanto alle difficoltà burocratiche, lo Stato dovrebbe “limitarle a monte, semplificarle, cercare di sostenere questi progetti non solo attraverso una serie di scartoffie allucinanti da compilare”. Dovrebbe, insomma, secondo gli attivisti, sostenere i piccoli produttori che sono la forza della qualità alimentare italiana, valorizzare i progetti di cohousing abitativo, di vicinato solidale, valorizzare chi torna a vivere in campagna e va a ripopolare frazioni, paeselli o comuni che non sono valorizzati per niente. “Nei paesi mancano i servizi, è complicato tornarci a vivere, anche con tutta la buona volontà”, continuano. Lo Stato dovrebbe, poi, “far approvare la legge proposta sugli ecovillaggi, che non hanno ancora una riconoscenza giuridica e legale”, concludono.

“Il lavoro è stato fatto, e tanto. Tutto il sistema messo in piedi, l’azienda (che a noi piace chiamare ‘organismo’) partita da zero che non aveva uno storico, terreni di proprietà, un mercato avviato. Dopo i primi tre anni siamo arrivati alla creazione di mercati e clienti, dopo cinque si iniziano ad avere i primi punti fermi”, spiega Stefano, uno dei fondatori.

Come possano immaginarsi tra dieci anni resta la domanda più difficile. “Non lo sappiamo. Magari ci saranno più famiglie, più collaborazione tra vicini che hanno lo stesso obiettivo: un ecovillaggio diffuso che sviluppa progetti, che si prende cura del territorio. Un luogo per trovare nuove rotte”. Per Michela la vita senza questa avventura “sarebbe stata meno intensa”. Anche perché da queste parti le azioni di cittadini privati vengono molto osteggiate da altri “che ci vedono come il diverso, la comunità hippy o i sessantottini: peccato – conclude –, che nessuno di noi nel ’68 fosse ancora nato”.

(foto di Stefania Bosso/CESURA)