Giustizia & Impunità

Ilva, maxi-condanne nel processo Ambiente Svenduto: 22 anni a Fabio Riva, 20 a Nicola. Ventuno per Archinà, 3 anni e 6 mesi a Vendola

Ai principali fiduciari dell'acciaieria - una sorta di "governo ombra" dei Riva - sono stati inflitti 18 anni di pena, mentre l'ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, è stato condannato a 3 anni. Ventuno anni all'ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso, due per l'ex direttore di Arpa Puglia. Confiscata l'area a caldo. L'attacco frontale di Vendola alla corte: "La sentenza è una vergogna, carneficina del diritto e della verità"

Quello provocato dall’Ilva di Taranto gestita dalla famiglia Riva fu un disastro ambientale. È quanto sostiene la Corte d’Assise del tribunale jonico che ha giudicato colpevoli a vario titolo i principali imputati del processo Ambiente Svenduto condannando a pene severe gli ex proprietari e vertici dell’acciaieria, così come i politici e uomini delle istituzioni coinvolti. La giuria – che ha letto il dispositivo per 1 ora e 46 minuti a partire dalle 10.43, dopo 11 giorni di camera di consiglio – ha inflitto 22 anni di reclusione a Fabio Riva e 20 al fratello Nicola. Il responsabile delle relazioni istituzionali, Girolamo Archinà, definito dall’accusa come la “longa manus” dei Riva verso istituzioni e politica, è stato condannato a 21 anni e 6 mesi, sei mesi in meno all’allora direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso.

Vendola condannato attacca i giudici – Ai principali fiduciari dell’acciaieria (Lanfranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli e Agostino Pastorino) considerati una sorta di “governo ombra” dei Riva sono stati inflitti 18 anni e 6 mesi di pena, mentre l’ex governatore Nichi Vendola, accusato di concussione aggravata in concorso, ha ricevuto una pena di 3 anni e 6 mesi. La reazione dell’ex presidente della Regione è stata veemente, un attacco frontale alla giuria: “Mi ribello ad una giustizia che calpesta la verità. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l’ennesima prova di una giustizia profondamente malata. Sappiano i giudici che hanno commesso un grave delitto contro la verità e contro la storia”, ha scritto definendosi un “agnello sacrificale” e sostenendo che “non starò più zitto”. L’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, è stato condannato a 3 anni: era accusato di aver fatto pressione sui dirigenti della sua amministrazione perché concedessero l’autorizzazione all’Ilva per l’utilizzo della discarica interna alla fabbrica. Stessa pena per per l’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva. L’ex consulente della procura Lorenzo Liberti ha ricevuto una pena di 15 anni e 6 mesi. Condannato a 2 anni per favoreggiamento anche l’ex direttore di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, che aveva annunciato durante il dibattimento di voler rinunciare alla prescrizione e per il quale la procura aveva chiesto 1 anno.

Le altre pronunce della corte – Assolti invece il prefetto Bruno Ferrante, presidente dell’Ilva del periodo del periodo più difficile del siderurgico per la quale l’accusa aveva chiesto 17 anni, l’ex sindaco di Taranto Ippazio Stefano e due fiduciari, Giuseppe Casartelli e Cesare Corti. Prescrizione per l’ex assessore pugliese e deputato di Si Nicola Fratoianni e l’attuale assessore regionale Donato Pentassuglia. L’allora direttore del siderurgico Adolfo Buffo, ora direttore generale di Acciaierie Italia, nel quale c’è anche la statale Invitalia è stato condannato a 4 anni (la richiesta era 17 anni). Pene alte per Ivan Di Maggio, Salvatore De Felice, Salvatore D’Alò, condannati a 17 anni ciascuno, come da richiesta dell’accusa. Invece per Marco Andelmi e Angelo Cavallo la pena è stata di 11 anni e 6 mesi, mentre l’accusa ne aveva chiesti 17. L’avvocato dei Riva Francesco Perli è stato condannato a 5 anni e 6 mesi (l’accusa ne aveva chiesti 7). A molti dei condannati la Corte ha inflitto anche l’interdizione perpetua o per 5 anni dai pubblici uffici o dai propri incarichi.

Le confische – A Ilva è stata comminata una sanzione di 4 milioni euro e l’area a caldo dello stabilimento è stata confiscata. La confisca disposta dalla sentenza non avrà effetti immediati sulla produzione del siderurgico, perché sarà operativa solo nel momento in cui dovesse essere confermata dalla Cassazione. Al momento resta attivo il sequestro con facoltà d’uso da parte di Acciaierie Italia, la join venture tra ArcelorMittal e Invitalia, che gestisce l’impianto. L’acciaieria di Taranto, come già confermato dalla Corte Costituzionale, è infatti dal 2012 considerato per legge un impianto strategico per l’economica. I giudici hanno stabilito la confisca per equivalente del profitto illecito nei confronti delle tre società Ilva spa, Riva fire spa, oggi Partecipazioni industriali spa in liquidazione, e Riva forni elettrici per gli illeciti amministrativi per una somma di 2 miliardi e 100 milioni di euro in solido tra loro. È stata disposta anche la trasmissione degli atti alla procura per l’ipotesi di falsa testimonianza di 4 persone ascoltate in aula, compreso l’ex arcivescovo della diocesi di Taranto Benigno Papa.

Le accuse – La Corte d’Assise – presieduta da Stefania d’Errico, giudice a latere Fulvia Misserini – ha sostanzialmente giudicato valido l’impianto accusatorio dei pm Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile, Remo Epifani e Raffaele Graziano, coordinati dal procuratore facente funzione Maurizio Carbone che avevano portato alla sbarra, a vario titolo, associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, avvelenamento di sostanze alimentari, corruzioni in atti giudiziari, omicidio colposo e altre imputazioni. Gli imputati erano stati rinviati a giudizio nel 2015, ma il dibattimento iniziato davanti alla Corte d’Assise era stato annullato qualche mese più tardi e si era tornati in udienza preliminare. Il secondo processo, cominciato nel 2016, si è concluso oggi e ha visto 47 imputati alla sbarra (44 persone fisiche e 3 società).

Come iniziò la vicenda – La vicenda legata al presunto disastro ambientale era deflagata il 26 luglio 2012 quando venne notificato il decreto di sequestro degli impianti, firmato dalla gip Patrizia Todisco, quando gli operai avevano già isolato la città perché il provvedimento era sostanzialmente “annunciato” da quanto stava avvenendo da settimane. Per quaranta giorni i carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Lecce avevano filmato gli sbuffi dell’acciaieria più grande d’Europa, le nuvole di minerale, come chiamano a Taranto le polveri di ferro e carbone che viaggiavano verso il quartiere Tamburi dai parchi, allora scoperti, dove venivano stoccate in attesa di diventare acciaio.

Le reazioni del sindaco e della procura – “Credo che da oggi cambia tutto per questo Paese, cambia tutto per Taranto, per i diritti dei tarantini. Tutte le sofferenze che ci portiamo dietro finalmente vengono riconosciute dallo Stato italiano”, ha detto il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci. Per la procura di Taranto, la sentenza “rappresenta un momento importante per la città di Taranto” che chiude “la prima fase di una delicata e complessa vicenda giudiziaria”, ha scritto il procuratore facente funzioni Carbone. “È stato un percorso giudiziario lungo e travagliato, una strada in salita e con tanti ostacoli, ma oggi – aggiunge – possiamo esprimere la nostra soddisfazione per questo primo importante risultato. Leggeremo con attenzione le motivazioni di questa sentenza che rappresenta una svolta storica sul piano giudiziario per la città di Taranto, e non solo”. Tutte le difese hanno già annunciato ricorso in appello, con gli avvocati dei Riva pronti a sostenere che la famiglia ha “costantemente investito ingenti capitali” in Ilva “al fine di migliorare gli impianti e produrre nel rispetto delle norme” per un totale sotto la loro gestione di “4,5 miliardi di euro, di cui 1,2 miliardi di natura specificatamente ambientale”. Per la Corte d’Assise, invece, tra il 1995 e il 2012, sotto la loro gestione, l’Ilva provocò un disastro ambientale.

Twitter: @cicciocasula e @andtundo