Mafie

Beni confiscati alla mafia: per lo Stato possono essere un’opportunità o una condanna

Dopo gli allarmi di De Raho e della Dolci, Draghi dia un segnale, perché le mafie a quanto pare di “segnali” ne stanno dando assai e sono diventate bravissime a non darne di eccessivi.

Nella sola giornata di ieri il Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo Federico Cafiero de Raho sulle pagine del Mattino e la Procuratrice aggiunta di Milano e coordinatrice della Dda, Alessandra Dolci, intervenendo ad una iniziativa di Piccola Impresa Assolombarda ripresa poi dal Sole 24 ore, hanno nuovamente stigmatizzato la capacità delle organizzazioni criminali di stampo mafioso di penetrare l’economia legale affaticata dal Covid, di generare esse stesse imprese capaci di captare il flusso del denaro pubblico messo a disposizione per far fronte alla crisi, di diversificare le proprie attività nei settori diventati più lucrosi a causa della pandemia e di approfittare delle maglie larghe degli ordinamenti di altri Paesi Ue per riciclare i proventi delle attività illecite.

Una montagna di denaro che genera altro denaro ma soprattutto rendita di posizione sociale e politica: il voto di scambio resta l’anello di congiunzione tra “mondo di sotto” e “mondo di sopra”. Certo queste organizzazioni hanno imparato la lezione degli anni ’90: basta con omicidi eccellenti e atti terroristici, perché scatenano inevitabilmente reazioni temibili da parte dello Stato che poi ci si mette decenni a riassorbire. Meglio muoversi diversamente, tenendo un profilo basso, usando la corruzione, a volte il ricatto, la maledetta compiacenza di funzionari infedeli dello Stato capaci di stroncare carriere ostili e meglio dissimulare, arrivando persino a dissociarsi, magari facendo intravvedere addirittura la scelta di una piena collaborazione con la Giustizia.

Ma proprio grazie a quelle “inevitabili reazioni temibili” dello Stato, oggi l’Italia è dotata di strumenti di prevenzione e contrasto unici al Mondo come la Dia, la Dna e l’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati. In questi organismi, come in altri che soltanto per brevità qui non richiamo, si sono accumulate competenze straordinarie di uomini e donne che hanno maturato esperienze senza pari in Europa. Tutto bene quindi? No, per almeno due motivi.

Il primo è che le risorse umane e strumentali messe a disposizione di questi organismi non sembrano sempre all’altezza della sfida: l’esempio più chiaro è quello dell’organico dell’Agenzia, che si fatica a potenziare strutturalmente nonostante sia evidente il carico di lavoro che l’Agenzia è chiamata a svolgere.

Ma c’è un altro motivo, più circostanziato al tempo che stiamo vivendo: è immaginabile che tutto considerato, e cioè da un lato la mole di investimenti delle organizzazioni criminali, ma dall’altra la capacità dei nostri organismi di intercettarli e bloccarli, aumenterà nei prossimi mesi/anni la quantità di beni sequestrati e poi confiscati o per via penale o per via dei provvedimenti di prevenzione. Questa massa di beni potrà essere una opportunità per lo Stato, oppure una condanna: una opportunità se questi patrimoni diventeranno volano per un rinnovato radicamento economico e sociale, una condanna se invece languiranno poco o male utilizzati.

E’ senz’altro una responsabilità principalmente del Ministero dell’Interno continuare a lavorare per mettere l’Agenzia nelle migliori condizioni possibili, ma è una responsabilità del Governo tutto fare in modo che il Pnrr consideri i patrimoni confiscati come “bandolo” di una strategia complessiva a maggior gloria della Repubblica.

Sono certo che a Palazzo Chigi ci siano le sensibilità giuste per capirlo, basti ricordare che l’attuale Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, il consigliere Roberto Garofoli, nel 2013, sotto la presidenza di Letta fu il responsabile della Commissione insediata dall’allora Presidente del Consiglio, per la riforma del Codice Antimafia. Riforma che avrebbe visto la luce nel 2017, dopo un lungo e complesso iter parlamentare.