Cronaca

Lodi, oltre 30 sanitari in malattia per patologie gravi devono restituire parte della paga all’Asl. “Mi è cascato di nuovo il mondo addosso”

L'Asst rivuole indietro decine di migliaia di euro perché gli operatori, quando erano assenti a causa delle cure, percepivano uno stipendio pieno senza averne il diritto. All'origine dell'errore una serie di documenti mancanti che però i precedenti amministratori non avevano chiesto. Il dg Gioia: "Atto dovuto". Le pratiche di riscossione sarebbero partite su input dei magistrati alla luce di un precedente esposto in procura. I sindacati: "Vergognoso colpire i sanitari in un momento come questo". Le testimonianze

Li hanno chiamati eroi, ora sono schiacciati negli ingranaggi della burocrazia. Oltre una trentina di infermieri e operatori sanitari dell’Asst di Lodi, molti dei quali in forza all’ospedale di Codogno, in trincea durante i primi giorni dell’emergenza Covid-19 e in passato ammalati di gravi patologie mediche (anche tumorali), sono stati intimati dal loro datore di lavoro a restituire qualche decina di migliaia di euro perché durante la loro assenza a causa delle cure e per le conseguenze della malattia, percepivano uno stipendio pieno senza averne il diritto. Questo è quanto sostenuto dall’Asst di Lodi, che il 26 marzo scorso ha recapitato loro una lettera con oggetto: “Indebita erogazione di retribuzioni in violazione del contratto nazionale di lavoro”. Ma tra il 2002 e il 2016 era stata la stessa azienda socio sanitaria della provincia di Lodi a proporre ai dipendenti gravemente malati di usufruire di quanto stabilito dall’articolo 11 del Contratto nazionale del lavoro di categoria, che parla delle terapie salvavita, concedendo una sorta di congedo a mensilità non decurtata. Si chiedeva solo di depositare certi documenti, ma oggi l’Asst sostiene che i certificati consegnati allora non fossero sufficienti.

“Mi è cascato di nuovo il mondo addosso, proprio come quando mi fu diagnosticato di avere un cancro”, dice Elisabetta (nome di fantasia), un’infermiera di Codogno che ha ricevuto un’intimazione a restituire circa 10mila euro. “Ho provato schifo – aggiunge – e sarà dura per me tornare in corsia come se niente fosse, anche se per fortuna sono guarita”. Passata attraverso la malattia e più recentemente l’esperienza del Covid, Elisabetta non si capacita di come si sia potuti arrivare a questo punto. “Io – dichiara – mi sono comportata come mi fu consigliato nel 2011 eì ho usufruito dei diritti scritti nero su bianco nel mio contratto di lavoro, dedicandomi a tempo pieno alle mie cure”.

L’attuale gestione dei presidi ospedalieri lodigiani, retta dal Direttore generale Salvatore Gioia, parla di “atto dovuto” per errori commessi da amministratori del passato. Essi pare abbiano innescato una segnalazione alla Procura della repubblica presso la Corte dei conti della Lombardia datata 2019 che ha imposto alla pubblica amministrazione di agire. Indiscrezioni parlano di un esposto presentato qualche anno prima, che sollevava perplessità sulle procedure risalenti a un arco di tempo compreso tra il 2002 e il 2016.

I sindacati ritengono il provvedimento per lo meno inopportuno in epoca di pandemia: “È vergognoso colpire il comparto sanitario in un momento come questo” dice Gianfranco Bignamini della Federazione italiana sindacati intercategoriali al quale Elisabetta si è rivolta. E che aggiunge: “L’ospedale di Codogno è stato uno dei simboli contro la pandemia e rivalersi su alcuni dei suoi dipendenti fa orrore. Naturalmente abbiamo in mente di resistere e ci avvarremo della collaborazione di illustri avvocati”. La Direzione dell’Asst locale ha deciso di sospendere l’aut-aut comunicato in un primo tempo (ovvero la restituire di quanto dovuto entro 15 giorni) e convocherà ogni singolo operatore coinvolto per procedere a soluzioni pensate su misura. Ma nel frattempo, per alcune famiglie, è come precipitare ancora in un incubo. A Marco Losi, marito di un’infermiera dipendente dell’Ospedale Maggiore di Lodi morta di tumore nel 2016, le assenze della moglie che si stava curando, potrebbero costare ben 23 mila euro: “Sono senza cuore… Davvero senza cuore!”, commenta.

Stefano Lazzarini, sindacalista della Confederazione generale dei sindacati autonomi dei lavoratori di Lodi, ricorda un caso simile accaduto nel 2017. “A due infermiere mie associate furono chiesti quasi 50 mila euro. Ci siamo rivolti al giudice del lavoro ma abbiamo perso”. “Anche in quel caso – prosegue – per una carenza di documentazione. Ma ovviamente un dipendente si comporta come la sua azienda gli consiglia di fare. Si tratta di chiari errori commessi dal management, ma chissà perché a pagare deve essere sempre e solo il lavoratore. Ma è ora che le cose cambino!”.