Società

I camion di Bergamo e le morti (degli altri): pur di non dirci la verità, ci consoliamo con lo shopping

di Gabriele Gelmini

Un anno fa, confinati nelle nostre case, abbiamo progressivamente smesso di cantare dai balconi per farci forza a vicenda a causa di un’immagine agghiacciante che resterà per un po’ impressa nella memoria collettiva: la lunga fila di camion dell’Esercito a Bergamo che trasportavano le numerose bare di chi aveva perso la battaglia contro il Covid.

A lungo i giornali hanno discettato di come questa sarebbe stata la foto simbolo di un anno sui generis, e che avrebbe impresso una svolta incisiva alle nostre vite, soprattutto in vista della fine della pandemia: non saremmo più stati gli stessi, ora sì che abbiamo capito il senso della vita, il valore dei rapporti umani, rigetteremo il capitalismo sfrenato eccetera eccetera.

Peccato che senza colpo ferire abbiamo fatto orecchie da mercante subito dopo la fine del lockdown. Ci siamo scoperti improvvisamente tutti rispettosi della legge (noi!) e abbiamo deciso che se le regole ci permettevano di incontrare qualcuno a casa e di assembrarci allora ce lo saremmo fatti andar bene, anche se questo avrebbe voluto dire rischiare il contagio per primi. O peggio, rischiare di diffondere il virus a terze persone. Perché ovviamente c’è chi ne ha approfittato: e infatti in estate le spiagge pullulavano di bagnanti accalcati, alla faccia di chi continuava a lottare e morire (dieci persone al giorno, vero, che non valgono meno delle 300 che vengono a mancare ogni giorno oggi).

Ciò che più sconcerta, però, è il totale disinteresse verso la questione negli ultimi giorni della settimana scorsa, ossia prima che undici Regioni su venti passassero lunedì in zona rossa: approfittando dell’ultimo weekend di aperture, abbiamo visto folle di persone accalcate per le vie del centro delle principali città (e immagino anche di quelle più piccole, che però non finiscono sui tg), tutte intente a comprare o a passeggiare in zone poco defilate per godere degli ultimi scampoli di ‘libertà’.

Ci sarebbe da fare un bel ragionamento sulla nostra idea di libertà e su quanto i consumi siano diventati (non parlo per chi ci campa, come i negozianti) addirittura più importanti della salvaguardia della salute. Ma tant’è: dev’essere nella natura umana il vizio di pensarsi invincibili – almeno fino a quando poi ‘il prossimo’ non sei proprio tu.

Quello che però non capisco è come riusciamo a cancellare con un colpo di spugna l’idea della morte dalle nostre vite (che tra l’altro è forse l’unica certezza che abbiamo), persino di fronte a un’informazione martellante e al fatto di aver visto cambiare di punto in bianco le nostre abitudini quotidiane.

Su questo mi viene in aiuto un mini saggio (novanta pagine circa) di Alessandro Perissinotto, La società dell’indagine, che cerca di scandagliare le ragioni per cui negli ultimi anni siamo diventati grandi appassionati di romanzi noir e serie tv che ruotano attorno a scene del crimine e delitti efferati. Tra le altre cose, Perissinotto ci dice che la società occidentale tende a presentare la morte come risultato e non come processo: essa, preconfezionata e possibilmente imbellettata, soppianta ‘il morire’ e si trasforma così in una verità nascosta, ma inevitabile. Ecco perché ci risulta così attraente: “La morte si camuffa sotto il velo della pudicizia [mentre] la morte violenta recita un ruolo di crescente importanza” perché è l’unico modo con cui possiamo sperimentarla e a cui possiamo avvicinarci. Perciò “la morte naturale, misteriosa e insondabile, cede il posto a quella violenta, che invece ha un’elevata dose di razionalità: dalla morte naturale non ci si può guardare, ma dalla mano assassina sì”.

Insomma, non siamo più abituati al concetto di morte. E quindi ci lasciamo tranquillamente cullare da tutto quello che ci può offrire una risposta consolatoria: i libri e le serie tv, dove gli omicidi vengono risolti da affascinanti detective; ma anche le urgenze superflue, come gli acquisti, perché ci sentiamo immortali – o meglio, perché non riusciamo a dire a noi stessi la verità sulla nostra natura. Per di più con il miraggio dei vaccini a disposizione. Ma a grattare un po’ ecco che emerge quel che sta sotto la superficie e che ci affrettiamo a nascondere.

Senza vergogna, un po’ come chi in Parlamento si è detto sicuro che i morti di Bergamo di quella famosa foto avrebbero voluto le riaperture, se solo avessero potuto parlare ancora.