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“Lo Sport di domani”, il nuovo libro di Flavio Tranquillo per ragionare sulla costruzione di una ‘nuova cultura’

Ripensare il mondo dello sport è davvero possibile? La ricostruzione è uno degli sforzi che politica e istituzioni hanno voglia di sostenere? E come? Ma, soprattutto, cosa intendiamo per sport? Analisi, critica e pars construens si fondono nelle 144 pagine dell'ultimo saggio scritto, durante il lockdown, dal giornalista di Sky Sport. In tempi di allocazione dei miliardi del Recovery Fund, una lettura necessaria per ripensare un settore che vale l'1,7% del Pil

Ripensare il mondo dello sport è davvero possibile? La ricostruzione è uno degli sforzi che politica e istituzioni hanno voglia di sostenere? E come? Ma, soprattutto, cosa intendiamo per sport? A scorrere le 174 pagine del Piano per il rilancio Italia 2020-2022 elaborato dagli ‘esperti’ di Vittorio Colao non si tratta di una priorità, visto che quella parola non è mai citata in 174 pagine di idee e progetti per far ripartire l’Italia nel post-pandemia. Eppure la scossa che il ‘sistema’ è destinato a subire rendono una riorganizzazione, sicuramente possibile, ancora più urgente e necessaria. Il settore, del resto, è tutt’altro che marginale, come ci ricorda Flavio Tranquillo nel suo Lo sport di domani (add editore, 14 euro).

Il sottotitolo “costruire una nuova cultura” introduce il cuore della vicenda e una parola che va a braccetto con lo Sport (lettera maiuscola) nel ragionamento imbastito dal giornalista di Sky Sport nel suo ultimo saggio quando affronta il tema dello sport di base, ma proprio “base”, cioè l’educazione fisica nelle scuole, da dove tutto dovrebbe partire, sia sotto il profilo della formazione che del rispetto delle regole di ingaggio (ad esempio: la sempre assai citata partecipazione di De Coubertin è poi così giusta?). Analisi, critica e pars construens si fondono nelle 144 pagine dove si affrontano anche le questioni dilettanti e professionisti, il loro rapporto e come lo Stato tiene insieme il sistema, con scarsi concreti supporti ai primi e una carezza alle casse del business malconcio dei secondi, con un’attenzione particolare a nuovi modelli – leggasi americano, con la giusta enfasi – che sarebbero un primo passo (ma non sufficiente, senza una riforma organica) per immaginare lo sport che verrà. “Se il modello sociale della superstar milionaria è illusorio, quello del finto dilettante che dedica quindici anni a un lavoro precario e sommerso per poi trovarsi senza educazione, risparmi e prospettive, è drammatico”, ricorda Tranquillo.

Anche per questo si dovrebbe partire dal basso, inteso non come contrapposizione tra il professionismo e l’aspetto pop-ludico-amatoriale, ma come necessità di considerarlo un bene pubblico. E quindi di ripartire dalle scuole, dove oggi – è il j’accuse di Tranquillo – quando si parla di sport ci si “lava la coscienza” con due ore alla settimana di educazione fisica, senza nemmeno mettere a disposizione le (poche) strutture pubbliche idonee alle società dilettantistiche a prezzi congrui. In tempi di grandi dibattiti sull’allocazione delle risorse del Recovery Fund e sull’Italia che sarà, Lo sport di domani, scritto in tempi di primo lockdown, è uno strumento utile per comprendere lo stato del nostro sport che vale l’1,7% del Pil, porsi il dubbio che non proprio tutto stia girando per il verso giusto e ragionare sul dove si vuole andare per rendere sostenibile la piramide che tiene insieme il campione e il bambino di 7 anni in tuta alla quarta ora. Uscendo dal grande inganno che un sistema funzionante debba portare quest’ultimo a diventare il primo, piuttosto dovrebbe aiutarlo a trovare il suo posto giusto nel mondo, non solo dello sport.

UN ESTRATTO DEL LIBRO Lo sport di domani di Flavio Tranquillo

Eppure ci sono molti che si chiedono il perché del far fatica. Per sport, perdio! Ma che cos’è lo sport? E che senso ha dedicarvisi?
Giovanni Boniolo

La verità non è più un processo di scoperta collettiva, ma un’ortodossia già nota a un’illuminata élite, il cui compito è di informare tutti gli altri.
Bari Weiss
(dalla lettera di dimissioni dal “New York Times”)

C’è sport e Sport. Nel libro, useremo la maiuscola per l’accezione più alta di questa parola e indicheremo invece con la minuscola la sua declinazione nella società. Aver gestito male quest’ultima è un peccato mortale, perché oggi ne avremmo tanto bisogno. Sì, oggi, perché sarebbe proprio questo, pur così particolare, il momento giusto per innovare. Le 174 pagine del Piano per il rilancio «Italia 2020-2022» elaborato dal Comitato di esperti in materia economica e sociale coordinato da Vittorio Colao contenevano oltre 75.000 parole. Il motore di ricerca, interrogato alla voce “sport”, non restituisce però alcun risultato, anche se questo lemma riempie una parte significativa della vita di milioni di persone e vale l’1,7 % del pil (30 miliardi). Quale migliore indicazione rispetto all’urgenza di un vero cambiamento?

Quella che segue sarà una critica, costruttiva nelle intenzioni. “Critica” non nel senso di “censura” ma in quello di attività «volta ad approfondire e motivare la valutazione di un fatto o situazione». Come ci insegnano Aristotele e Dante, l’uomo, animale sociale, deve schierarsi politicamente. Per chi si nasconde, c’è solo il meritato disprezzo del «non ragioniam di lor, ma guarda e passa». Ma per quale motivo la politica dovrebbe occuparsi di quella che secondo Arrigo Sacchi «è la cosa più importante tra quelle meno importanti» e per Gian Piero Gasperini «una parentesi di leggerezza»? Perché non stiamo parlando solo di competizioni di alto livello, bensì dell’immenso valore culturale di un fenomeno rispetto al quale manca un approccio rigoroso, capace di tradursi in quella visione senza cui non si può progettare la parte di avvenire chiamata futuro.

La potenza dello sport, oggi più aggregatore delle ideologie e più identitario delle religioni, ha in sé una pericolosità proporzionata: i rischi, come le remunerazioni, sono altissimi. La velocità con cui, a fine agosto, lo stimolo di un paio di giocatori e di un assistente dei Milwaukee Bucks ha fatto salire in poche ore sul carro del boicottaggio i loro compagni, le altre squadre, la Nba e parti significative di baseball, calcio e tennis Usa sta a dimostrarlo. Chi nega che sia stata una storica occasione per mettere al centro un enorme problema sociale ignora la realtà, spero in buona fede. Ciò non toglie che la narrativa unica con cui l’iniziativa è stata comunicata imporrebbe riflessioni più critiche e profonde di quelle che (non) sono state fatte.

Tornando a casa nostra, per fare un salto di qualità non basta una discontinuità politico-istituzionale, ci vuole una rigenerazione complessiva. Piero Calamandrei ha ben definito la “desistenza”, quell’impasto di fatalismo, passività e individualismo che è stato premessa e conseguenza del fascismo e che affligge anche il nostro piccolo mondo sportivo. Resistere, per il giurista fiorentino, non significava opporsi a uno schieramento politico, bensì essere protagonisti di una rinascita culturale. Partendo da questa suggestione, d’ora in avanti si parlerà di «Sport-Cultura» per sottolineare l’indissolubile legame tra due termini connessi da grandi affinità elettive.

La cultura non nasce sotto i cavoli, ma è figlia di un processo lungo e faticoso, come testimonia la sua derivazione dal latino colĕre (coltivare). Ne discende che, per incidere su un mondo per certi versi arcaico, non possiamo riprodurre gli schemi del passato. Alla nostra incruenta resistenza servono nuove armi intellettuali come il “pensiero divergente” di Guilford: fluido, flessibile, originale, capace di approfondire e di scegliere. Ci diciamo da una vita che dobbiamo cambiare la cultura sportiva in senso ideologico, materiale e comportamentale, senza però mai progettare quella semina senza la quale non esiste raccolto. Per invertire la tendenza, ogni sportivo dovrebbe perciò imitare Gandhi ed essere il cambiamento che vorrebbe vedere negli altri.

Il 14 maggio, presso la Camera dei Deputati, l’on. Daniele Belotti (Lega) ha rivolto un gesto nei confronti del collega Giovanni Currò (M5S) formando un’ellisse con il pollice e l’indice delle due mani acconciamente distanziate. Il parlamentare, che occupava la parte alta dell’emiciclo per attuare il distanziamento fisico, ha così giustificato il proprio comportamento: «Non ci ho visto più, e del resto ci hanno confinato lassù, nelle tribune degli ospiti. Per me è come stare nel terzo anello di San Siro, io sono uno da stadio». Lo stadio non è più quindi il luogo della comunità in cui l’atleta ricerca l’eccellenza misurandosi nella competizione. Esso è diventato invece una zona franca, in cui chi ritiene di essere nel giusto può fare quasi tutto. Astraendo dal parlamentare bergamasco, si dovrebbe rivendicare il dovere (non il diritto) di fare argine contro questa deriva. Lo Sport, come la politica, deve tornare ad avere dignità assoluta, senza eccezioni.

Basterebbero le regole, come l’articolo 3 della Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Questa è la missione: abbattere ostacoli e costruire cultura. Il resto, concordo con Sacchi e Gasperini, è meno importante. Ho iniziato a lavorare a questo libro il 12 aprile 2020, nel pieno del lockdown che ha sconvolto vite e abitudini. Con il passare del tempo, mi sono accorto che andrà bene solo se ci metteremo impegno, onore e disciplina, cioè l’essenza dello Sport e (allo stesso tempo) le parole che lo sport più ha spogliato di senso. Se nemmeno la forza subdola del virus sarà capace di farci passare dall’io al noi, la disfatta sarà dolorosa. Gli uomini di Sport però, alle sconfitte non si arrendono prima di giocare. Mai.