Scienza

Vaccino Covid, viaggio nel cuore scientifico dello Spallanzani. Il direttore Ippolito: “L’Italia è competitiva nonostante pochi investimenti”

La seconda ondata di Covid-19? Una conseguenza del “rilassamento progressivo” dei mesi estivi, quando “non abbiamo saputo percepire che quanto successo nel nord-ovest del Paese poteva accadere anche in altre aree”. Così, l’Italia, dopo il primo lockdown dello scorso marzo e la ripartenza, è tornata nel “buio più buio” dell’emergenza coronavirus. A dirlo Giuseppe Ippolito, il direttore scientifico dello Spallanzani, l’Istituto nazionale per le malattie infettive di Roma (Inmi), uno dei centri simbolo della ricerca italiana. Qui dallo scorso 24 agosto è iniziata la sperimentazione di GRAd-CoV2, il candidato vaccino anti Covid di Reithera, l’azienda di biotecnologie di Castel Romano, alle porte di Roma. Un progetto, quello di realizzare un “vaccino tutto italiano“, per il quale sono stanziati otto milioni di euro, cinque milioni a carico della Regione Lazio e tre milioni a carico del ministero dell’Università e della Ricerca scientifica. E che, chiarisce lo stesso Ippolito, ha “inventori italiani, è prodotto e sperimentato in Italia ed è finanziato dall’Italia”, andando a “competere in un mondo dove i finanziamenti per la ricerca per i vaccini sono stati enormi”.
I tempi? “La sperimentazione sta progredendo, entro la fine di novembre verrà arruolato l’ultimo paziente della fascia anziani. Poi, sulla base dei risultati promettenti, questo ci permetterà di presentare i documenti alle agenzie regolatorie, per avviare le fasi successive”, precisa il direttore scientifico dell’Inmi. “Speriamo che dalla seconda metà di dicembre Reithera possa presentare la domanda perché il composto venga valutato dall’Ema”, è l’obiettivo dichiarato.
Una sfida, quella di rincorrere un vaccino, possibile anche grazie alla “palestra dell’Aids“, che ha permesso di sviluppare test e farmaci antivirali. “Oggi come allora erano necessarie misure comportamentali, così come c’era e c’è bisogno di messaggi chiari”. Da tempo la popolazione “non si confrontava con le misure di distanziamento”, perché “bisognava tornare alla grande paura della sifilide del dopoguerra, per quelle di protezione personale, come il preservativo”. O, per quelle di infezione respiratoria, alla “grande paura della tubercolosi”. In pratica, spiega Ippolito, “c’eravamo dimenticati di tutto questo”. Eppure la lezione non è bastata per evitare di ritornare in piena emergenza, in attesa che uno o più vaccini possano frenare i numeri della pandemia.