Calcio

“Lasciate la punizione al ragazzo”: così Adriano presentò al mondo il suo talento in una notte d’agosto al Bernabeu

Il 14 agosto del 2001 a Madrid l'Inter gioca contro il Real: a 6 minuti dal fischio finale entra in campo un 19enne brasiliano, cresciuto nella favela di Vila Cruzeiro, nord di Rio. Quando i nerazzurri conquistano un calcio piazzato dal limiti, Héctor Cúper non ha dubbi: "Deve tirarla lui". Il suo sinistro finisce sotto l’incrocio dei pali. Prima scorcio di una classe che poi andrà sperperata

La voce di Héctor Cúper scoppietta sul campo del Santiago Bernabeu. “Lasciate la punizione al ragazzo”, dice. “Deve tirarla lui”, grida. All’inizio nessuno sembra dargli retta. Perché il pallone è fermo qualche centimetro prima dell’area di rigore del Real Madrid. E quella è la posizione perfetta per un calcio a giro di Clarence Seedorf. Eppure Cúper insiste. Vuole che a tirare sia “il ragazzo”. Di lui si sa pochissimo. Solo che si chiama Adriano, ha compiuto 19 anni e ha il numero 14 sulle spalle. È arrivato dal Brasile appena cinque giorni prima, come contropartita in uno scambio che ha portato Vampeta al Flamengo. Si è allenato una sola volta con il gruppo. Piacenza, Venezia e Bordeaux non hanno perso tempo. Hanno alzato il telefono e hanno composto il numero di Moratti. Vorrebbero prenderlo in prestito per farlo giocare titolare. Anche solo per una stagione. Cúper invece lo ha aggregato in tutta fretta alla prima squadra per l’amichevole contro le meringhe.

È il 14 agosto del 2001 e a Madrid fa caldo. Un’afa che svuota i polmoni e inzuppa le magliette. Per Adriano già è incredibile trovarsi lì, seduto in panchina ad aspettare il suo turno, a guardare quei fenomeni che scammellano per il campo in attesa del fischio finale. Un sogno molto più grande di quelli che era abituato a fare da bambino. Perché a Vila Cruzeiro, la favela nella parte nord di Rio, non c’è molto tempo per fantasticare. I sogni non riempiono stomaci e bisogna pensare a cose più concrete. I più piccoli imparano presto a tenere in mano una pistola. Qualcuno addirittura un fucile. “È un gioco, ma non è solo un gioco”, ammette Adriano. Lungo quelle baracche ammassate, fra le carcasse d’auto che si muovono gemendo pietà, fra i muri incrostati dal sudiciume si impara a sparare e a calciare un pallone. E un’attività non esclude l’altra.

La palla di stracci è un’anestetico, il modo più economico per svuotare la testa e illudersi che esista davvero un futuro. È lì che Adriano ha assorbito i suoi vizi e le sue virtù. Fra campetti polverosi e piste improvvisate dove far correre le biglie. A sette anni si presenta al Flamengo per un provino. Gli allenatori delle giovanili gli danno un pallone e gli chiedono di fare qualche esercizio. E lo prendono subito. I suoi genitori attraversano la città per accompagnarlo agli allenamenti. Giorno dopo giorno dopo giorno. Solo che spostarsi a Vila Cruzeiro vuol dire fare sacrifici. E sperare che vada tutto bene. Quando Adriano ha dieci anni il padre Almir viene colpito alla testa da una pallottola vagante. Viene ricoverato in ospedale in condizioni disperate. All’improvviso Adriano non ha più chi lo accompagna agli allenamenti. Il calcio non è più una scappatoia, diventa un sogno futile. Meglio smettere di inseguire il pallone. Meglio iniziare a fare il lustrascarpe per aiutare la famiglia.

Poi un giorno papà Almir si sveglia. Non è più in pericolo, può uscire dall’ospedale e tornare a lavorare. Ora Adriano può tornare a correre. I suoi inizi erano stati nel calcetto. Dopo quattro anni finalmente comincia a giocare 11 contro 11. Prima come terzino sinistro, poi come centravanti. L’esordio con il Flamengo è da sogno. Il San Paolo è avanti 2-0 quando Paulo Cesar Carpegiani dice ad Adriano di entrare. In una manciata di minuti segna un gol e serve tre assist. Il club Rubro-Negro vince 5-2. È l’epifania di un talento che brucia come stimmate. Poi il viaggio in Italia e l’approdo ad Appiano Gentile. Fino a quel 14 agosto del 2001. Fino a quell’amichevole contro il Real Madrid.

Quando mancano sei minuti Hector Cúper lo fa entrare al posto di Vieri. Sembra il classico cambio estivo, con i ragazzini buttati in campo a far rifiatare i campioni. Invece ad Adriano bastano sei giri di lancette per diventare l’incubo della difesa del Real. Sfiora un gol di testa, si procura falli, difende il pallone, si lancia all’attacco. Fino a quel calcio di punizione dal limite. Seedorf è pronto a calciare a giro, ma la voce di Cúper gli intima di lasciare perdere, di far tirare il ragazzo. Adriano prende la rincorsa. Un passo. Due passi. Tre passi. Poi calcia di sinistro. Il pallone è così veloce che scompare e riappare una frazione di secondo dopo sotto l’incrocio dei pali. Gol. Qualcuno garantisce che quella sfera andava a 180 chilometri orari. Misto di leggenda e di realtà.

Il Bernabeu si rianima, i tifosi del Real si stropicciano gli occhi. Il fenomeno gioca con la maglia a strisce nere e azzurre. E non è Ronaldo. Adriano si gira e inizia a correre verso la sua metà campo. Il braccio destro teso, l’indice alzato. “Meno male che non ha preso nessuno in barriera”, commenta Javier Zanetti. Dopo la partita di Madrid tutti vogliono raccontare il nuovo prodigio del calcio mondiale, tutti vogliono un pezzetto di Adriano. Il Corriere della Sera riesce ad avere un’intervista. “Molti giocatori, dopo qualcosa di buono, pensano di essere già nel futuro – garantisce il brasiliano – Io so che è un atteggiamento sbagliato e che solo il lavoro ti aiuta ad avvicinare il futuro. Anzi può portare il futuro nel presente. Non voglio surriscaldarmi la testa. Per diventare un calciatore forte è adesso che bisogna impegnarsi, adesso che bisogna insistere”. Una frase che riletta oggi, dopo aver visto l’abnegazione di Adriano nello sperperare il suo talento, è come un pugno allo stomaco.