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Usa, i 75 anni di John Carlos: il pugno alzato di Città del Messico che portò la voce dei neri nello sport. Ma il Paese non è ancora pronto

Il velocista di colore nel 1968 aveva 23 anni. Il suo gesto, insieme al compagno Tommie Smith, è rimasto nella storia dello sport e della lotta per i diritti degli afroamericani, ma gli costò la carriera. Oggi, dopo 52 anni, mentre in Nba non si fa fatica a schierarsi a sostegno della causa, Nfl e Mlb considerano l'appoggio ai neri un "danno per il business"

“Per voi siamo cavalli da esibizione. Finito il lavoro ci date dei colpetti sulla spalla… Io sono stanco di sentire i bianchi dire ‘bravo ragazzo!’ solo perché abbiamo vinto”. Tra gli spalti dello Stadio Olimpico Universitario di Città del Messico si sentono solo fischi e uno strano chiacchiericcio mentre John Carlos parla ai microfoni. È il 16 ottobre 1968 e si è appena conclusa la finale dei 200 metri piani della XIX edizione dei Giochi Olimpici. Il suo amico Tommie Smith ha conquistato l’oro, John si è dovuto accontentare del bronzo. L’ennesimo successo guadagnato per un Paese da cui non si sentono né tutelati né rispettati. John Carlos, nato il 5 giugno 1945 ad Harlem, figlio di un veterano della Prima Guerra Mondiale e nipote di schiavi, aveva 23 anni quando veniva immortalato sul podio, con il braccio alzato e il pugno chiuso, in una foto tra le più iconiche del Novecento. Oggi invece di anni ne compie 75, ma per qualcuno nello sport americano è ancora difficile parlare di razzismo.

America, ieri… – Quella che si avvicina alle Olimpiadi del 1968 è un’America profondamente sconvolta. Gli assassinii di Martin Luther King e di Robert Kennedy hanno appena certificato l’estinzione del “sogno a stelle e strisce” e a orientare ogni dibattito è la questione razziale, un conflitto così evidente da non risparmiare neppure lo sport. Basti pensare che solo un anno prima Muhammad Ali si era visto ritirare la licenza pugilistica in seguito al rifiuto di prendere parte alla Guerra del Vietnam. Decisione argomentata dal campione con sentenze come: “Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro”.

E quella di Ali non è certo una posizione minoritaria fra gli atleti afroamericani, neppure tra gli olimpionici, tutti piuttosto maldisposti all’idea di fare da cavalli da corsa per i bianchi. A riunire attorno a sé le voci del dissenso è dunque Harry Edwards, professore di sociologia e fondatore dell’Olympic Project for Human Rights (Ophr). Contando sull’appoggio delle Pantere Nere e dei movimenti universitari, Edwards propone di boicottare in toto le Olimpiadi di Città del Messico, salvo poi virare verso una nuova strategia: sfruttare la manifestazione come un’enorme vetrina.

Pugni chiusi – Sostenitore sin dal principio dell’Ophr, il 16 ottobre 1968 John Carlos si presenta alla finale dei 200 metri piani dopo aver stracciato il record olimpico con un pazzesco 20’ 01’’. Lo stesso tempo, però, che ha fatto registrare anche un altro velocista, Tommie Smith, che con John condivide bandiera, talento e colore della pelle. La gara è clamorosa. Carlos esce forte dai blocchi e si proietta in testa al gruppo, ma all’altezza del rettilineo Smith allunga e lo svernicia attorno ai 180 metri, inchiodando il cronometro su un fantascientifico 19’ 83’’… Nessun essere umano aveva mai corso i 200 metri piani sotto i 20 secondi. Mentre il compagno già festeggia, John gestisce male anche le ultime energie, venendo beffato dall’australiano Peter Norman. È solo bronzo, ma l’esito della gara scivola in secondo piano, perché quello che succede dopo entra dritto nei libri di storia.

Risuonano le note dell’inno americano mentre John Carlos e Tommie Smith sono rispettivamente sul terzo e sul primo gradino del podio. Entrambi sono scalzi, a indicare la povertà degli afroamericani. Smith porta al collo una sciarpa nera per testimoniare l’orgoglio del popolo di colore, mentre Carlos ha la giacca sbottonata e una collana di perline per dimostrare solidarietà ai lavoratori americani e ricordare le pietre con cui i suoi fratelli vengono linciati negli Usa. Hanno il capo chinato, il braccio alzato e il pugno chiuso, fasciato in un guanto nero: Tommie il destro, John il sinistro. Carlos, infatti, ha dimenticato i guanti e così Smith gliene ha prestato uno dei suoi. Questa è l’unica nota fuori spartito di una performance curata in ogni dettaglio da Harry Edwards. Accusati di ogni nefandezza, Carlos e Smith vengono immediatamente allontanati dal villaggio olimpico e rispediti in America, dove ad accoglierli trovano minacce di morte e indagini della Fbi. Attorno a loro viene fatta terra bruciata, devono abbandonare la carriera di velocisti e John dovrà aspettare oltre sei anni prima di ritrovare uno stipendio.

America, oggi – Si potrebbe dire che le condizioni che portarono all’ostracismo inflitto a Carlos e Smith dopo le Olimpiadi di Città del Messico non appaiano replicabili nello sport americano contemporaneo. Una simile conclusione, tuttavia, sarebbe figlia di un giudizio miope. Pur risultando innegabile che superstar del calibro di LeBron James o Steph Curry godano oggi di uno status tale da potersi permettere di ingaggiare anche aspri scontri verbali con il presidente Trump, restano comunque alcune spie che testimoniano quanto il 1968 non sia poi così distante da noi.

Guardiamo, per esempio, al caso del quarterback afroamericano Colin Kaepernick e ai suoi ultimi sviluppi. Reo di essersi inginocchiato durante l’inno nazionale in segno di protesta contro le oppressioni subite dalle minoranze nere negli Usa, Kaepernick ormai da tre anni è senza contratto e le dichiarazioni rilasciate lo scorso 2 giugno da Joe Lockhart, ex vice capo della comunicazione Nfl, sembrano chiarire il perché: “I proprietari pensavano che la firma di Kaepernick fosse un male per il business. Un dirigente del team che voleva ingaggiarlo mi disse che se lo avessero fatto avrebbero dovuto mettere in conto di perdere il 20% degli abbonati. Era un rischio commerciale che nessuna squadra era disposta ad assumersi”.

Ecco: “It’s all about business”. Tutto qui. Non è un caso, infatti, che la prima tra le leghe sportive americane a essersi schierata in difesa dei diritti delle comunità nera sia stata proprio la National Basketball Association. Inarrivabile per vendite all’estero, la Nba risulta solo terza per fatturato tra le leghe americane. Colpa di un mercato interno piuttosto ridotto e concentrato in special modo sulle coste, in Stati a tradizione democratica. Una “debolezza”, questa, che permette alla Nba di schierarsi senza problemi anche nei riguardi di temi irrisolti come quello della discriminazione razziale, giacché il pubblico americano di riferimento è più ridotto e targettizzato. C’è meno gente da scontentare, insomma. Per football e baseball, invece, il discorso cambia radicalmente.

La Nfl resta ancora la lega più ricca al mondo, figlia di uno sport irrorato di cultura ed epica made in Usa e con le radici ben piantante proprio in quelle zone dove Donald Trump raccoglie maggiori consensi. Ecco dunque spiegati i toni vaghi con cui la maggior parte delle franchigie si sono espresse riguardo al movimento Black Lives Matter. E simili postulati valgono pure per la Mlb, che ha lasciato trascorrere più di una settimana dalla morte di George Floyd prima di diramare uno striminzito comunicato lo scorso 3 giugno. Il baseball negli States resta un rito sociale e comunitario ancor prima che sportivo e le dimensioni totalizzanti di un simile audience portano proprietari e commissioner a utilizzare cautela nell’esporsi su questioni tanto divisive. Insomma, ieri come oggi l’America (ma non solo) resta prigioniera dei suoi fantasmi. John Carlos compie 75 anni e del suo pugno alzato c’è ancora un disperato bisogno.

Twitter: @Ocram_Palomo