Calcio

9 maggio, l’ultimo lampo di Van Basten con la maglia del Milan: l’illusione del gol all’Ancona e il sogno spezzato tra interventi e depressione

Nessuno poteva immaginare che la rete di testa al già retrocesso club dorico dovesse essere l'atto finale di una storia d'amore e non una rinascita dopo tante sofferenze. Perché la caviglia del cigno di Utrecht non tornerà mai più quella di prima, con le operazioni che non hanno fatto altro che peggiorare la situazione. Il ricordo di quei mesi

Marco van Basten l’ha sentito cambiare giorno dopo giorno. Prima veniva a fargli visita a intervalli più o meno regolari. Gli addentava la caviglia dopo ogni allenamento, gliela gonfiava dopo ogni partita. Soprattutto d’inverno, quando i campi erano più pesanti e l’umidità cominciava a segare le sue ossa. Poi il dolore ha iniziato a essere costante. Un compagno fedele che lo seguiva da quando apriva gli occhi la mattina fino a che non gli chiudeva la sera. Era sempre lì. Ed era così intenso da impedirgli di concentrarsi su ciò che lo circondava. Tutto era cambiato il 21 dicembre del 1992. L’inizio di stagione dell’olandese era stato devastante. Dodici gol segnati nelle prime 8 partite di campionato. Poi qualcosa si era inceppato.

Per 4 giornate l’attaccante era rimasto a secco, si era dovuto accontentare di vedere esultare gli altri. Le sue movenze meno eleganti, i suoi tiri meno potenti, le sue giocate meno pericolose. Così, in vista della pausa invernale, van Basten decide di farsi operare alla caviglia. Anche se il Milan non è poi così d’accordo. L’olandese però tranquillizza la società. L’intervento non è rischioso. Anche perché a maneggiare il bisturi è un luminare come il dottor Marti, uno che era stato chiamato per dar vita a un nuovo reparto del policlinico universitario di Amsterdam. Bisogna solo rimuovere quei frammenti ossei che infiammano la caviglia in continuazione e rischiano di danneggiare la cartilagine.

L’attaccante arriva nella clinica di Sankt Moritz con il jet privato di Berlusconi. Viene anestetizzato e poi portato in sala operatoria su un lettino trascinato da due suore. L’intervento è riuscito. Per recuperare ci vorranno quattro settimane. Un periodo tutto sommato accettabile. Solo che le cose non vanno come previsto. “Dopo l’operazione il dolore era cambiato – dirà tempo dopo nella sua biografia – era più acuto, più penetrante. Lo sentivo a ogni passo, prima dell’intervento non era mai stato così”. Per van Basten inizia una fase tutta nuova, una fase sconosciuta. Quella della presa di coscienza.

Il 9 maggio torna titolare in campionato. Capello lo manda in campo contro una vittima sacrificale come l’Ancona, un piede e altre quattro dita nella successiva Serie B. Frank Rijkaard porta in vantaggio il Diavolo. Van Basten fa fatica. Non riesce più a muoversi come prima. Non riesce più a calciare come prima. Al 37’ Donadoni batte un angolo dalla destra e pesca l’olandese in mezzo all’aera. Gol. Ma van Basten segna di testa, non di piede. Qualche lingua velenosa insinua che è un segno del destino. Qualcuno prova a dire che forse il recupero non sta andando come previsto. Ma nessuno può ancora immaginare che sarà l’ultimo gol in carriera per il cigno di Utrecht. La domenica successiva il Milan affronta la Roma. Van Basten è di nuovo titolare. Van Basten è di nuovo in difficoltà. Il suo campionato finisce lì, a San Siro, il 16 maggio del 1993. Ma c’è ancora una partita da giocare.

Quella più importante di tutte. Perché il Diavolo di Capello è arrivato in finale di Coppa dei Campioni. Se la dovrà vedere contro l’Olympique Marsiglia di Rudi Voeller. L’allenatore chiama l’attaccante e lo informa che giocherà dal primo minuto. Solo che la caviglia non gli dà ancora tregua. Per la prima volta van Basten chiede di scendere in campo con un’infiltrazione. Gli infilano un ago nell’articolazione e iniettano un liquido. Van Basten non sente più dolore. Non sente più niente. E questo è il problema. Perché uno della sua classe non può permettersi di vagare per il campo con la caviglia indolenzita. Basile Boli segna sul finire del primo tempo. Ma il Milan non ha neanche la forza di reagire. A 4’ dalla fine Capello richiama in panchina van Basten e manda in campo Eranio. Potrà rifarsi l’anno prossimo, pensano i tifosi, quando la caviglia si sarà finalmente messa a posto e lui sarà rientrato di nuovo in forma. Non succederà mai.

Quella maledetta finale resterà per sempre l’ultima partita giocata in carriera da van Basten. I due anni successivi sono una lunga maratona lungo in incubo. In due campionati somma zero presenze. Per lui c’è un altro percorso, fatto di nuovi interventi, di stampelle, di camici bianchi, di riabilitazioni senza fine e senza alcun progresso. Le prova tutte, van Basten. Anche l’agopuntura. Anche le ciarlatanerie di un mago. Non serve a niente. L’olandese non riesce neanche più a fare forza sulle caviglie per mettersi a letto. L’epilogo è chiaro a tutti. Bisogna solo capire quando andrà in scena. Il 17 agosto del 1995 l’olandese annuncia il suo ritiro, chiedendo al Milan di organizzargli una conferenza stampa “da uomini”. “La notizia che devo darvi è corta – dice – semplicemente ho deciso di smettere di fare il calciatore. Grazie a tutti quanti”. Qualcuno gli chiede se ha qualche rimpianto. “Probabilmente non mi metterei più nelle mani dei chirurghi – spiega – dopo ogni intervento la caviglia anziché migliorare peggiorava”. Adriano Galliani afferma che “il calcio perde il suo Leonardo da Vinci”.

Sebastiano Rossi, invece, è più diretto: “Forse è meglio così, per lui sarà una liberazione. A noi confidava di essere già contento di poter tornare a camminare“. Il giorno dopo il commiato dai tifosi milanisti avviene con un giro di campo a San Siro prima della sfida contro la Juventus. Una passerella che fa male a tutti. Tanto a lui quanto ai tifosi. “C’era tristezza ovunque – ha ricordato qualche mese fa in un’intervista a Sette – Quella del pubblico, e la mia. Correvo, perché non volevo far vedere che zoppicavo, battevo le mani alla gente. E intanto pensavo che non c’ero già più, mi sembrava di essere ospite del mio funerale. Quella sera pensavo soltanto che la mia vita era stata il calcio. Adesso era diventata una fogna. Avevo il fegato a pezzi per gli antidolorifici. Avevo un dolore pazzesco a quella caviglia maledetta. Ero disperato. Dopo, quando ne sono uscito, ho capito di aver vissuto qualcosa di simile alla depressione“. Un finale surreale per un giocatore capace di vincere tre volte il pallone d’oro.