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Coronavirus, Oms: “Paesi dovevano ascoltare la nostra allerta del 30 gennaio”. Ma quel giorno sconsigliarono di limitare i viaggi

Lo ha dichiarato il direttore generale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, nel corso del consueto briefing con la stampa: "Noi diamo i migliori consigli". Ma quel giorno rimediarono, per loro ammissione, a un errore di valutazione delle settimane precedenti. E la pandemia globale venne dichiarata solo l'11 marzo

L’Organizzazione Mondiale della Sanità accusa i singoli Stati di non aver ascoltato le sue disposizioni, atteggiamento che, sostengono, è alla base della massiccia diffusione del coronavirus. Lo fa con una dichiarazione del direttore generale, Tedros Adhanom Ghebreyesus, che, nonostante le accuse piovute sull’Oms per i numerosi ritardi e un atteggiamento compiacente nei confronti della Cina, rivendica l’operato dell’Organizzazione: “Quando il 30 gennaio abbiamo dichiarato la più alta emergenza sanitaria mondiale, con solo 82 casi di coronavirus fuori dalla Cina, il mondo avrebbe dovuto ascoltare meglio. Tutti i Paesi avrebbero potuto attivare i massimi livelli di sicurezza allora”. E ha poi aggiunto: “Noi diamo i migliori consigli, alcuni Paesi li accettano, altri li rifiutano. Ogni Paesi si assuma la sua responsabilità”.

Ma come già ricostruito da Ilfattoquotidiano.it, il 30 gennaio, quando ancora l’Organizzazione riteneva che la trasmissione da parte di casi asintomatici non rappresentasse “uno dei mezzi principali di trasmissione”, dichiarazione smentita dalle evidenze dei mesi successivi, l’Oms si limitò, per sua stessa ammissione, solo a rimediare a un “errore” di valutazione fatto nelle settimane precedenti.

Ricostruendo la cronologia delle dichiarazioni alla stampa dei vertici dell’Agenzia Onu, punto di riferimento mondiale in ambito sanitario, si nota che fino al 20 gennaio l’Oms si era sentita di escludere la possibilità di trasmissione da uomo a uomo. È solo in quella data che anche gli scienziati cinesi confermarono le previsioni dei colleghi, tra cui Gianni Rezza, direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità, che invece dicevano il contrario. Posizione alla quale si è poi allineata anche l’Oms.

Il 23, dopo un comitato di emergenza già rimandato di 24 ore, l’Organizzazione pensò però che fosse “troppo presto” per dichiarare un’emergenza di salute pubblica di livello internazionale, visto che “esiste una trasmissione da uomo a uomo in Cina, ma per ora sembra limitata a gruppi familiari e operatori sanitari. Al momento, non ci sono prove di trasmissione da uomo a uomo al di fuori della Cina”. Tre giorni dopo, il 26 gennaio, si registrò il primo caso non importato in Vietnam e, con 44mila casi a Wuhan, l’Oms decise, il 27 gennaio, di fare marcia indietro: dichiarò che il rischio globale era “elevato”, ammettendo un errore nei suoi precedenti rapporti in cui riferiva “erroneamente” che il rischio fosse “moderato”. Ed è solo il 30 gennaio che il direttore generale decise di dichiarare l’emergenza globale, ma nonostante ciò “non raccomanda di limitare i viaggi, il commercio e il movimento (della popolazione) e si oppone persino a qualsiasi restrizione di viaggio”. Il giorno dopo, con il virus comparso già in 24 Paesi, nel suo bollettino l’Agenzia scrisse che “il mezzo principale di trasmissione sono i casi sintomatici”. Per arrivare alla dichiarazione di pandemia globale si dovrà aspettare fino all’11 marzo, con 100 Paesi coinvolti, 100mila casi registrati e 4mila morti.

“Ci aspettiamo che il contagio dia immunità, ma non ci sono prove”
Nel briefing di lunedì, i vertici dell’organizzazione si sono detti speranzosi sul fatto che “il Solidarity Trial ci aiuti presto a capire quali terapie sono le più sicure ed efficaci per il trattamento dei pazienti con Covid. Ma alla fine avremo bisogno di un vaccino per controllare questo virus”, ha aggiunto Ghebreyesus.

Il virus, secondo le rilevazioni dell’Oms, si comporta in maniera abbastanza stabile e “i cambiamenti che ci sono stati erano previsti”. E sull’immunità dopo un primo contagio ricorda che non esistono ancora prove certe: “Ci aspettiamo che con gli anticorpi si sviluppi un certo livello di protezione” da Covid-19, “ma non sappiamo quanto forte sia e quanto duri. Quindi per ora non possiamo dire che avere gli anticorpi voglia dire essere immuni. Questo non significa che non ci sia immunità, ma semplicemente che gli studi sono ancora in corso”.

A chi gli chiede un parere sui Paesi europei che stanno iniziando ad allentare le misure restrittive, Ghebreyesus risponde: “Le misure di lockdown in Europa vengono allentate con il calo del numero di nuovi casi. Continuiamo a sollecitare i paesi a trovare, isolare, testare e trattare tutti i casi e tracciare ogni contatto, per garantire che queste tendenze in calo continuino. Ma voglio ricordare e ripetere che l’epidemia è lontana dalla fine“.

Twitter: @GianniRosini