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Coronavirus, le accuse all’Oms. Dalla pandemia dichiarata con 100 Paesi interessati all’uso delle mascherine: “Ai sani non servono”

Solo il 10 febbraio, dopo settimane di studi in loco, i responsabili dell'Organizzazione Mondiale della Sanità hanno iniziato a considerare un fattore determinante la diffusione da uomo a uomo anche tra asintomatici. Sull'uso delle protezioni, il cambio di rotta è avvenuto solo il 4 aprile. E il Wall Street Journal accusa il direttore generale Ghebreyesus di aver favorito il governo cinese

“World Health Coronavirus Disinformation”. Tradotto: “Disinformazione Mondiale della Sanità sul coronavirus”. Con questo titolo il Wall Street Journal attacca l’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, accusandola di mala gestione della pandemia di coronavirus fin dalla sua comparsa in Cina. Diversi gli elementi presi in esame dall’articolo, come ad esempio il fatto che “la pandemia è stata dichiarata solo l’11 marzo”, quando ormai si registravano oltre 100mila casi in tutto il mondo, con oltre 100 Paesi colpiti e più di 4mila morti. Una risposta tardiva che può aver ritardato i provvedimenti dei governi e favorito la diffusione del virus.

Ma l’attenzione del quotidiano finanziario americano si concentra sulle questioni politiche e al centro dell’attacco c’è il direttore generale dell’organizzazione: Tedros Ghebreyesus, “responsabile della maggior parte degli errori commessi dall’Oms in questa epidemia, un politico più che un medico”. Secondo il quotidiano, il direttore generale si è dimostrato “più spaventato dalle ire di Pechino che di quelle di Washington“. Dunque, secondo il Wsj, “gli Stati Uniti avranno molti alleati nel tentativo di riformare l’Oms” che, in quanto Agenzia delle Nazioni Unite, rappresenta un punto di riferimento sulla gestione delle questioni sanitarie per i Paesi di tutto il mondo.

Le accuse di lassismo riguardo all’operato della Cina devono però essere contestualizzate: nelle settimane in cui gli esperti e osservatori dell’Oms si complimentavano con Pechino per i risultati ottenuti, team di scienziati dell’organizzazione collaboravano a stretto contatto, in loco, con le autorità della Repubblica Popolare proprio nel tentativo di studiare il nuovo coronavirus, i suoi effetti e la sua pericolosità. Inoltre, un atteggiamento simile, nel tentativo di instaurare una più stretta collaborazione, è stato tenuto anche più tardi nei confronti dell’amministrazione Trump: quando negli Usa iniziavano a comparire i primi casi e il presidente respingeva qualsiasi proposta di restrizione, accusando proprio l’Oms di tenere un atteggiamento di favore nei confronti di Pechino, l’organizzazione plaudiva all’atteggiamento di Washington, nonostante il Paese fosse già considerato il nuovo possibile epicentro della pandemia globale.

Diversa questione sono gli atteggiamenti dell’Organizzazione su tre questioni di primaria importanza per il contrasto alla diffusione del coronavirus: la trasmissione, la dichiarazione di pandemia globale, e l’uso di mascherine e tamponi.

Trasmissione, a febbraio dicevano: “Quella dai casi asintomatici è rara”
Dai primi studi effettuati, l’Oms si era sentita di escludere la possibilità di trasmissione da uomo a uomo. Ma secondo alcuni scienziati il fatto che il virus, che allora aveva provocato due morti, fosse stato “esportato”, faceva pensare che il focolaio di partenza fosse molto più ampio, circa 1700 casi. Un focolaio di questa potata fece pensare alla possibilità di trasmissione da uomo a uomo. Il 20 gennaio anche gli scienziati cinesi confermarono le previsioni dei colleghi, tra cui Gianni Rezza, direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità.

Il comitato di emergenza dell’Oms sul virus venne convocato però solo il 22, poi rimandato al 23. L’Organizzazione pensò però che fosse “troppo presto” per dichiarare un’emergenza di salute pubblica di livello internazionale, visto che “esiste una trasmissione da uomo a uomo in Cina, ma per ora sembra limitata a gruppi familiari e operatori sanitari. Al momento, non ci sono prove di trasmissione da uomo a uomo al di fuori della Cina”.

Tre giorni dopo, però, il 26 gennaio, si registrò il primo caso non importato in Vietnam e, con 44mila casi a Wuhan, l’Oms decise, il 27 gennaio, di fare marcia indietro: dichiarò che il rischio globale era “elevato”, ammettendo un errore nei suoi precedenti rapporti in cui riferiva “erroneamente” che il rischio fosse “moderato”. Tanto che, il 30 gennaio, il direttore generale decise di dichiarare l’emergenza globale, ma nonostante ciò l’Oms “non raccomanda di limitare i viaggi, il commercio e il movimento (della popolazione) e si oppone persino a qualsiasi restrizione di viaggio”.

Il 1 febbraio, quando il virus era ufficialmente comparso in 24 Paesi, nel suo bollettino quotidiano l’Oms scriveva che “il mezzo principale di trasmissione sono i casi sintomatici. L’Oms è a conoscenza della possibilità di trasmissione del virus da persone infette prima che sviluppino i sintomi. Pertanto, la trasmissione da casi asintomatici probabilmente non è uno dei mezzi principali di trasmissione”.

Informazione che si è poi rivelata falsa appena 10 giorni dopo, quando Ghebreyesus è costretto ad ammettere che “ci sono stati alcuni casi preoccupanti sulla diffusione del Covid-19 da persone che non hanno fatto viaggi in Cina” e quindi i casi fuori dal Paese potrebbero essere solo “la punta dell’iceberg”, come dimostrato nelle settimane successive.

Il primo, vero, cambio di rotta dell’Oms si registra però solo il 16 marzo, quando Ghebreyesus arriva a dire che si tratta di “una malattia grave. Anche se le prove che abbiamo suggeriscono che gli over 60 sono a maggior rischio, sono morti anche giovani, compresi i bambini”. Così, solo il 1 aprile l’organizzazione ha ritenuto necessario comunicare che era arrivato il momento di “sorvegliare anche gli asintomatici”.

Il virus si diffondeva, ma la pandemia globale è stata dichiarata solo l’11 marzo
Anche sull’allarme da lanciare ai governi mondiali l’Oms ha ricevuto molte accuse di scarsa velocità. Il focus è sulle tempistiche per dichiarare il coronavirus una pandemia globale. Secondo la definizione dell’Oms, una pandemia è la diffusione in tutto il mondo di una nuova malattia e generalmente indica il coinvolgimento di almeno due continenti, con una sostenuta trasmissione da uomo a uomo. I primi casi in Europa si sono registrati tra la fine di gennaio e gli inizi di febbraio, anche se l’aumento esponenziale si è registrato solo dalla fine del mese.

La dichiarazione di pandemia implica che ogni Paese metta a punto un piano pandemico e che lo aggiorni costantemente sulla base delle linee guida dell’Oms al fine di frenare l’avanzata del virus.

Il 4 febbraio, quando la malattia era comparsa in 24 Paesi, l’Oms dichiarò che non c’erano elementi per dichiarare la pandemia, semmai una “epidemia con focolai multipli“. Stessa cosa il 24 febbraio, quando i casi fuori dalla Cina erano oltre 2mila, i Paesi coinvolti 28 e i morti fuori dallo Stato asiatico 23. Nello stesso briefing, Ghebreyesus disse comunque che “dobbiamo contrarci sul contenimento e allo stesso tempo fare ogni cosa possibile per prepararci a una potenziale pandemia“, pur lasciando le valutazioni ai singoli Paesi, senza fornire linee guida.

E mentre il capo missione dell’Oms in Cina, Bruce Aylward, il 25 febbraio diceva che “il mondo non è pronto a fronteggiare il coronavirus”, Walter Ricciardi, sempre dell’Oms, in conferenza stampa a Roma diceva che era necessario “ridimensionare questo grande allarme, che è giusto, da non sottovalutare, ma la malattia va posta nei giusti termini: su 100 persone malate, 80 guariscono spontaneamente, 15 hanno problemi seri ma gestibili in ambiente sanitario, solo il 5% muore, peraltro sapete che tutte le persone decedute avevano già delle
condizioni gravi di salute”. Solo il giorno dopo vennero registrati più nuovi casi fuori dalla Cina che dentro al Paese.

Il 28 febbraio l’Oms alza il livello di minaccia mondiale a “molto alta”, con più continenti interessati, ma il 2 marzo ribadisce che ancora non era considerabile come pandemia e che con le giuste misure il virus si poteva ancora contenere. Solo nove giorni dopo, l’11 marzo, con oltre 100mila casi registrati, 100 paesi interessati e 4mila morti, arriva l’annuncio: “Il coronavirus è una pandemia globale”.

“Mascherine? ai sani non servono”
Anche sulle linee guida riguardanti le misure di prevenzione e diagnosi, nel tentativo di evitare allarmismi, l’Organizzazione ha agito con notevoli ritardi. Già il 25 febbraio si era iniziato a parlare dell’uso delle mascherine per tutta la popolazione allo scopo di frenare il diffondersi del virus. Ma, da parte di Ricciardi arrivò una risposta secca: “Le mascherine alla persona sana non servono a niente, servono alla persona malata e al personale sanitario”. Tesi ribadita da diversi membri dell’Oms il 1 marzo e anche il 20 marzo, quando ormai la pandemia era diffusa e i metodi di contagio più chiari: “Le mascherine servono a chi lavora in prima linea, se non ne avete bisogno per favore non indossatele”, insistevano.

“C’e’ un dibattito in corso sull’uso delle mascherine a livello di comunità, l’Oms raccomanda l’uso di mascherine mediche per le persone che
sono malate e per chi si prende cura di loro”, insisteva ancora Ghebreyesus il 1 aprile. Il 3 aprile, con la pubblicazione di uno studio del Mit di Boston sulla diffusione via aerea della malattia anche oltre il metro di distanza, l’Organizzazione inizia a pensare a una revisione delle linee guida. Il giorno dopo, il 4 aprile, una tiepida ammissione: “Ci sono delle circostanze nelle quali l’uso di mascherine all’interno di una comunità può aiutare nella risposta complessiva a questa malattia”.

Twitter: @GianniRosini