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Grecia, pil in crescita più della media Ue. Ma sette su 10 sono a rischio povertà, aumentano gli sfratti e il welfare è stato smantellato

Lo scorso anno i mercati hanno festeggiato la vittoria dei conservatori alle elezioni: il listino del Pireo ha ottenuto la performance migliore nel mondo. Intanto continuano le privatizzazioni, le banche accelerano i pignoramenti, il 60,9% dei lavoratori privati guadagna meno di 1.000 euro lordi e la tassazione sulla classe media è passata dal 37,5% del 2007 al 51% mentre la classe medio-alta versa oggi nella casse dello Stato solo il 38,1% rispetto al 56% del 2007

I primi paradossi della storia si fanno risalire alla Grecia antica. Ma anche nell’epoca moderna quella che è considerata la culla della civiltà occidentale non fa mancare apparenti contraddizioni, e a farne le spese è direttamente il popolo ellenico. Sette greci su dieci sono a rischio povertà, secondo le ultime stime dell’Ocse. Il 12,9% è già al di sotto del livello di povertà, mentre il 55,4% è considerato “vulnerabile”. E se tre mesi di salario dovessero improvvisamente sparire, i vulnerabili andrebbero ad alimentare direttamente il primo gruppo. Parliamo complessivamente del 68,3%, ben oltre la media Ocse del 50,4%, la situazione più critica nell’Unione Europea al netto della Lettonia. Eppure nel 2019 – prima dei crolli di questi giorni causa panico da coronavirus – la Borsa di Atene ha fatto registrare il risultato migliore della propria storia e, con una crescita del 47%, la piazza di scambio azionario del Pireo ha ottenuto la performance migliore nel mondo. Dopo il “tradimento” di Syriza e la conclusione dei programmi di salvataggio promossi dalla Troika, la Grecia si è affidata dallo scorso luglio a Nuova Democrazia. I mercati hanno approvato, ma le prospettive del Paese restano incerte. E ora il nuovo governo conservatore è alle prese con una nuova emergenza migratoria che sta affrontando con estrema durezza, schierando l’esercito.

Inversione di tendenza – Nell’ultimo report di febbraio la Commissione europea ha stimato la crescita del prodotto interno lordo di Atene al 2,2% per il 2019, e al 2,4% per il 2020, in rialzo rispetto al 2,3% della precedente rilevazione e comunque ben oltre la media Ue, che per l’anno in corso dovrebbe attestarsi all’1,4 per cento. Percentuali scintillanti, ma sulla base di valori assoluti crollati nell’ultimo decennio. Nel 2018, secondo i dati della Hellenic Statistical Authority, il Pil ammontava a 184 miliardi di euro, per il terzo anno in crescita dai 177 miliardi del 2015, ma ben lontano dai 241 miliardi del 2008. Negli otto anni di programmi di bailout Atene ha ricevuto 310 miliardi di euro, che hanno portato il rapporto debito/Pil oltre il 180 per cento. Gli investitori non sembrano preoccupati. La Borsa di Atene ha fatto registrare numeri record, e il rendimento dei titoli di Stato a 10 anni è sceso per alcune settimane stabilmente sotto l’1 per cento, azzerando lo spread con i titoli decennali italiani, dopo il sorpasso sui Btp a 5 anni già registrato a novembre.

Pochi, maledetti e subito – “Ci sono certamente buone prospettive per la crescita ma bisogna lavorare alle riforme e una nuova infrastruttura è necessaria. C’è bisogno della volontà politica, ed è lì”, ha detto il premio Nobel britannico-cipriota Christopher Pissarides, chiamato qualche settimana fa dal primo ministro Kyriakos Mitsotakis a presiedere la prima riunione della commissione deputata a delineare una strategia di lungo termine per il Paese. Intanto si cerca di fare cassa con ciò che c’è. Le privatizzazioni, per esempio, già promosse dai governi precedenti, procedono in maniera spedita. Taiped, agenzia che dal 2011 ha portato nelle casse dello Stato circa 20 miliardi di euro, sta lavorando alla cessione del 30% del consorzio che gestisce l’aeroporto di Atene, e di tutta la compagnia statale del gas Depa. Coinvolte nel programma anche la petrolifera Elpe, le riserve di gas naturale nella regione di Kavala, le marine di Alimos, l’autostrada Egnatia e molti porti e aeroporti regionali. Nel mirino dello Stato anche il recupero delle tasse non pagate, offrendo alla popolazione la possibilità di dilazionare i debiti nei confronti del fisco in 120 rate. Un’iniziativa che ha portato oltre 600.000 cittadini ad aderire al nuovo schema di rientro. Secondo i dati dell’Ufficio parlamentare di bilancio, la quota emersa rispetto ai debiti totali è passata dal 3,5% di fine 2018 al 6,1% di fine 2019: circa 6,5 miliardi di euro su un totale di 105,6 miliardi. Un chiaro seppur debole segnale della volontà dei cittadini di ripianare le proprie posizioni, impossibile in passato quando gli schemi di rientro del ministero delle Finanze offrivano rateizzazioni fino a soli 12 mesi, in molti casi pareggiando gli stessi stipendi dei lavoratori.

Il rimbalzo delle banche – La crescita del Pil e l’euforia borsistica si riconducono alle nuove prospettive delle banche, già crollate sul mercato del 93,9% nel 2015, complice il controllo dei capitali imposto dal governo, e del 49,8% nel 2018 per le preoccupazioni legate ai crediti in sofferenza. Da allora gli istituti di credito hanno iniziato a ridurre le proprie esposizioni. All’inizio del 2019 Eurobank ha avviato un piano per ridurre le proprie sofferenze dal 40% al 15%, mentre altre banche hanno aderito al programma Hercules, beneficiando delle garanzie statali. Il combinato di queste operazioni, con l’abolizione del controllo dei capitali disposta ad agosto dal nuovo governo, ha permesso al settore bancario di crescere in Borsa del 105,6% durante lo scorso anno, ma con una capitalizzazione complessiva che resta ancora circa la metà rispetto a un decennio fa, e uno stock di crediti inesigibili che ammonta a 74,5 miliardi di euro. Su questo fronte la Commissione europea ha chiesto ulteriori sforzi per portare tale somma a 26 miliardi entro il 2021.

L’offensiva sulla casa – I crediti inesigibili rappresentano i mutui che la popolazione non è riuscita a ripagare a causa della crisi finanziaria globale prima e del deterioramento dell’economia poi. Nel 2008 rappresentavano il 5% del totale, negli anni questa quota è esplosa e le diverse stime oggi sono comprese tra il 31 e il 45 per cento. La protezione della prima casa ha permesso finora di limitare i danni per le famiglie attraverso rinegoziazioni e sussidi, garantendo inoltre il settore bancario contro perdite dovute al calo dei prezzi degli immobili all’apice della crisi. Nell’ultimo biennio invece il mercato immobiliare ha invertito la tendenza, e i prezzi sono tornati a crescere dell’1,8% nel 2018 e del 7,2% nel 2019, grazie ai vantaggi fiscali di cui si valse società fiduciarie, ai “visti dorati” offerti ai cittadini extra-Ue intenzionati a investire oltre 250.000 euro nel real estate, e all’impennata degli affitti brevi, principalmente di AirBnb. Con il ritorno a valori più vantaggiosi, le banche hanno accelerato la chiusura delle esposizioni tramite pignoramenti e aste immobiliari, trasferendo gli asset a fondi e società di investimento internazionali. E con uno degli ultimi provvedimenti annunciati dal nuovo governo si preparano a inondare il mercato di nuove proprietà. “Non c’è protezione della prima casa in alcuna economia avanzata, né dovrebbe esserci, perché è dannosa per l’economia”, ha detto il ministro dello Sviluppo Adonis Georgiadis, invitando i cittadini a “maturare” e a escogitare soluzioni prima del prossimo 30 aprile, quando si chiuderà la finestra per aderire al programma di rientro. Si stima che fino a 200.000 proprietà potrebbero essere a rischio espropriazione. Questa nuova misura ha convinto Yanis Varoufakis a rendere pubbliche, intorno al prossimo 10 marzo, le registrazioni inedite degli incontri dell’Eurogruppo a cui ha partecipato fino al 2015, per rispondere alle nuove speculazioni avanzate sul lavoro dell’ex ministro delle Finanze in sede comunitaria.

Il lavoro che (non) c’è – Nell’ultimo anno la disoccupazione si è ridotta di quasi due punti, dal 18,6% di novembre 2018 al 16,6% dello stesso mese nel 2019. Ma le buste paga sono sempre più leggere. Come riportato dall’Efka, l’ente previdenziale ellenico, nel settore privato il 60,9% dei lavoratori guadagna meno di 1.000 euro lordi, e solo il 21,4% riceve un salario compreso tra i 1.000 e i 1.500 euro. Il salario medio complessivo per i lavoratori a tempo pieno del privato nel 2019 si è fermato a 1.160,91 euro lordi mensili, in calo dell’1,23% rispetto al 2018. Un paradosso che per Varoufakis è dovuto alla sostituzione di lavori qualificati con impieghi a bassa specializzazione e al mancato reinvestimento dei redditi che hanno trainato la crescita del Pil. Lo scenario resta molto difficile per i lavoratori qualificati, che negli ultimi anni hanno lasciato in massa il Paese, e di cui oggi gli imprenditori lamentano la mancanza. Il governo, intenzionato a invertire questa rotta, ha tagliato le tasse su profitti e dividendi e ha varato un programma pilota chiamato “Grecia, di nuovo” per riportare a casa 500 lavoratori altamente qualificati, di età compresa tra 28 e 40 anni, promettendo un salario lordo di 3.000 euro al mese. Il 70% del salario base verrà coperto da sussidi per il primo anno, con l’impegno delle aziende di mantenere il rapporto di lavoro per ulteriori 12 mesi. Un’iniziativa con orizzonte biennale che si rivolge a un ristretto numero di persone, e forse non particolarmente attraente per ritornare in un mercato che ha perso competitività e continua a navigare a vista. A fronte dei 500 lavoratori ricercati dal nuovo programma, ci sono infatti oltre 500.000 disoccupati che secondo i calcoli dell’Organizzazione per l’occupazione della forza lavoro (Oaed) sono alla ricerca di impiego da oltre 12 mesi.

La (piccola) riduzione delle tasse – La riduzione delle tasse di inizio anno ha coinvolto anche lavoratori e pensionati, provando a dare respiro a una popolazione stremata. Il provvedimento, i cui effetti si determinano in base al reddito e ai figli, permette un recupero che va dagli 11,43 euro mensili per i lavoratori del settore privato senza figli fino a un massimo di 26,67 euro mensili per i lavoratori del pubblico e pensionati con 3 figli. Non molto se guardiamo alle dinamiche fiscali e contributive che hanno interessato la spina dorsale del Paese nell’ultimo decennio. La classe media ellenica, secondo i parametri Ocse e i dati dell’istituto di statistica, è passata dal 2007 a oggi dal 49% al 54% delle famiglie, e la sua tassazione è aumentata di 13,5 punti, dal 37,5% al 51 per cento. La classe medio-alta, con redditi superiori ai 39.000 euro all’anno, si è invece ridotta dal 17% al 13,5%, e versa oggi nella casse dello Stato solo il 38,1% rispetto al 56% del 2007. Questa dinamica riflette sia lo scivolamento di una parte della classe medio-alta nella classe media, sia l’abbandono del Paese o la fine delle attività lavorative da parte di chi in passato deteneva redditi maggiori. Per recuperare risorse, lo Stato ha progressivamente aumentato la pressione sui redditi inferiori, un orientamento che non sembra arrestarsi. Emblematica la scelta di attirare dall’estero persone facoltose, garantendo tassazioni di favore. Per i paperoni l’esecutivo ha messo a punto un regime fiscale di favore, offrendo un “visto dorato” con una flat tax di 100.000 euro.

La dissoluzione del welfare: solo il 5% del pil alla sanità – Decine di migliaia di persone sono scese in piazza ad Atene e in altre grandi città a metà febbraio per protestare contro la riforma delle pensioni che prenderà il via dal prossimo giugno e che, a fronte di contenuti aumenti negli introiti, porterà l’età pensionabile a 67 anni. “Questo disegno di legge è praticamente la continuazione delle leggi (di austerità) introdotte nel 2010-2019”, ha affermato il sindacato dei dipendenti pubblici Adedy. “Il governo pagherà a caro prezzo l’ulteriore smantellamento delle assicurazioni sociali, come hanno fatto i governi che lo hanno preceduto. Il popolo greco non dimentica”, ha detto il segretario generale del partito comunista Dimitris Koutsoumbas.
Al centro delle rivendicazioni anche la privatizzazione del welfare, che ha ormai superato i livelli di guardia. “Le difficoltà di accedere ai servizi della sanità sono particolarmente cresciute per chi ne ha più bisogno, mettendo a rischio la parità e la giustizia sociale”, scrive il recente report promosso dal think tank Dianeosis, intitolato “Un nuovo sistema sanitario nazionale”. Lo studio evidenzia che un cittadino su cinque non riesce a pagare le spese sanitarie, che un paziente con cancro su tre non può incontrare il proprio medico regolarmente, che uno su quattro ha difficoltà ad accedere alle medicine, e che sei pazienti con diabete su dieci hanno difficoltà ad accedere alle cure. Negli ospedali pubblici mancano salviette e carta igienica e le famiglie sono costrette a ingaggiare infermieri privati per assistere i propri congiunti. Nell’ultimo decennio i tagli sono stati draconiani, e oggi la Grecia destina solo il 5% del Pil alla spesa sanitaria, ben al di sotto della media del 7% nell’Unione Europea. Questo si traduce, secondo dati Ocse, in una copertura pubblica delle spese sanitarie che non supera il 61% del totale. Il 4% viene coperto dalle assicurazioni private, mentre il 35% proviene direttamente dalle tasche dei cittadini. Una percentuale tra le più alte del mondo, con una media Ocse ferma al 21 per cento.