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Kobe Bryant, l’idolo di una generazione (la mia) di piccoli cestisti che volevano diventare Mamba

Abbiamo indossato le sue scarpe, abbiamo scelto la sua canotta, prima la 8 e poi la 24. Tendenzialmente le prendeva il più forte della squadra, nella mia toccava ad Antonio. Abbiamo provato cento volte quel movimento con il tiretto in fade-away, anche se eravamo scarsissimi. Lo faceva Kobe, il Black Mamba, dovevamo farlo anche noi. Sembrava facile, invece era Bryant. L’idolo di una generazione di piccoli cestisti, la mia. Quella per la quale il 22 gennaio 2006 vuol dire solo una cosa: la notte degli 81 punti, di quella bocca aperta. La sua mentre aggrediva il canestro, la nostra generazione a guardare stupita.

Quella che ha fatto le albe per vederlo giocare le Finals Nba, possibilmente contro Boston. Dominarle quasi sempre, come nel 2010. E del confronto con Michael Jordan ci importava il giusto. MJ aveva globalizzato il gioco, Kobe lo ha fatto esplodere negli anni dello streaming. Con la stessa classe, quella che nella Nba di oggi – ci perdoneranno LeBron e altri – si fa fatica a ritrovare. Non lo hanno fermato ginocchia in frantumi, un tendine d’achille saltato e un dito rotto (ne segnò 42 contro Charlotte, nonostante tutto).

Adesso che Kobe non c’è più, così all’improvviso, quando nessuno se lo aspettava, c’è una generazione di piccoli cestisti più povera. Ci resta quella che abbiamo ribattezzato Mamba Mentality. La prima volta che me lo sono ritrovato di fronte, era il luglio 2016, la spiegò così: “Resilienza, ossessione per la competizione, attenzione per i dettagli”. Lo avrei incontrato di nuovo un anno dopo, faccia a faccia. A Parigi. “Piacere Andrea”. “Ciao, Kobe, piacere”. Gli uomini della Nike avvertirono: “Domande in inglese”. Ma lui, che era cresciuto tra Rieti, Reggio Emilia, Pistoia e Reggio Calabria al seguito di papà Joe, disse che non se ne parlava proprio e che avrebbe risposto in italiano.

Non ho mai chiesto una foto ai grandi sportivi con i quali ho avuto a che fare per lavoro, quel giorno ho fatto un’eccezione. La spedii ai miei amici più stretti, quelli con cui ho condiviso le nottate e le albe seguendo la traiettoria della palla dopo che era partita da quella mano che avevo proprio lì, sulla mia spalla destra. Da stasera siamo tutti orfani di un nostro idolo. Francesco e Salvatore si sentono vuoti, Alessandro ha detto “pazzesco”, Carmine ha scritto solo “no…”. Antonio, quello della 8, non ha ancora risposto. Be like Kobe è rimasto un motto, anche se abbiamo smesso di giocare a basket. Adesso il nostro supereroe in carne e ossa non c’è più. E noi cerchiamo di attaccarci ai suoi trionfi, che sono i nostri ricordi, per pensare che abbia ancora una lezione da regalarci.