Calcio

Kitikaka (Oronzo Canà edition) – 35 anni fa usciva L’allenatore nel pallone. Lino Banfi al Fatto.it: “Diritti? Mai preso un amato chezzo”

Edizione speciale della rubrica del martedì con l'intervista esclusiva all'attore pugliese, protagonista, soggettista e creatore di una delle commedia più di successo del cinema italiano. Ricordi, aneddoti e particolari inediti della pellicola del 1984

“I diritti de L’allenatore nel pallone? Io non ho mai preso un amato chezzo”. Lino Banfi, alias Oronzo Canà, è sempre in forma smagliante. Scavallati gli 80 è rimasto ancora un “raghezzo”. Grintoso, spiritoso, gentiluomo. Un vero mister. Proprio come il Canà de L’allenatore nel pallone, il film cult che in queste settimane compie 35 anni. E per Pasquale Zagaria da Andria è come fosse ieri. “Decisi di fare questo film mentre viaggiavo tutte le domeniche sere in aereo con Nils Liedholm”, racconta a ilfattoquotidiano.it. “Lui allenava la Roma e tornava a casa a Milano. Io andavo a Milano perché lunedì mattina registravo un programma tv. Essendo io un romanista sfegatato, cercavo sempre un posto vicino a lui. Spesso chiedevo ad altri passeggeri di spostarsi: “Gentilmente, dovrei parlare con questo raghezzo”. Discutevamo dei risultati della Roma, su come avrebbe potuto giocare ma non giocò”.

Poi Liedholm si trasforma in sceneggiatore di film…
“Senti Banfi (Lino imita Liedhom ndr) io ho pensato a una cosa: hai mai conosciuto Oronzo Pugliese? Gli dissi di no, ma ricordavo quell’allenatore simpatico. Tutti in Puglia ne parlavano. Quando allenava il Bari portava un gallo sotto l’impermeabile e quando la squadra segnava lo lasciava libero in campo e l’arbitro lo cacciava. Il “barone” cominciò a inondarmi di aneddoti su Pugliese, così quando tornai a Roma chiamai Sergio Martino, con cui girai molti film assieme al fratello produttore Luigi. Sergio mi disse: fallo tu, hai l’età giusta. Così mi informai dai familiari in Puglia, ma non volli tenere lo stesso nome. Mentre scrivevamo il soggetto del film pensai che avrei voluto andare a vedere il Brasile che non avevo mai visitato. Così cambiai il cognome da Pugliese in Canà. Di solito usavo cognomi pugliesi come Petruzzelli, Zagaria, Lagrasta. Tutti mi chiesero perché Canà. E allora io risposi: perché mia moglie si deve chiamare Mara e voglio andare a vedere lo stadio Maracanà di Rio”.

Dopo 35 anni L’allenatore nel pallone continua a fare ridere come quando uscì…
“Abbracciammo lo sport, anzi il calcio che era e continua ad essere incredibilmente attuale. Poi non so come spiegarmelo, ma film come questo o Vieni avanti cretino sono diventati perfino una terapia per gli ammalati di Parkinson e Alzheimer. C’è una clinica al confine con la Slovenia dove ai malati vengono mostrati i miei film. I posturologi mi hanno detto che i pazienti ridendo così tanto fanno muovere tutti i muscoli del viso evitando la terapia di massaggi quotidiana”.

Il momento più felice su quel set.
“Mi inventai al momento la battuta sulla bizona. Dovevo dire, da copione, ‘solo la zona non basta’. E aggiunsi: ci vuole una bizona. Nella mia testa ho sempre pensato, ma quando disegnano i moduli sono tutti un 4-4-2, un 4-3-3, ecc… e non si arriva mai a 11. Perché non si calcola il portiere? Così lì per lì mi venne da dire: farete un 5-5-5. Ci fu la risposta di qualcuno, non in copione: ma mister così sono 15. Tutti risero e Martino disse teniamola”.

Anche il doppio senso “mi avete preso per un coglione” sul finale del film venne improvvisato? C’è un’annosa diatriba su questo episodio…
“Il film doveva finire con la battuta m’avete preso per un coglione e il fotogramma fisso sui due gemelloni tifosi che mi facevano saltare sulle loro spalle. Solo che questi due mi stavano facendo male alle palle veramente e quel “m’avete preso per un coglione” ripetuto più volte e loro che dicevano “ma no sei un’eroe” venne montato prima della scena in cui esultiamo insieme al presidente Borlotti (Camillo Milli ndr) e lui mi dice ‘lei è un disoccupato’ e io: ‘e lei è un cornuto’ ”. Poi, porca puttena, dopo nemmeno un annetto seppi della morte dei due ragazzoni gemelli monozigoti. Morirono dello stesso cancro al pancreas a distanza di venti giorni uno dall’altro”.

Momento nostalgia.
“Ricordo con affetto l’attimo in cui improvvisai la profezia su Ciccio Graziani. C’era una scena del dopopartita di Roma-Longobarda. Noi avevamo perso 4 a 0. Tutti i giocatori della Roma uscivano nel tunnel degli spogliatoi e mi facevano con le dita delle mani il segno del 4. Graziani mi fa lo stesso gesto e mi mette le dita sulla pelata. Allora io gli dissi, per gioco: ridi ridi, un giorno diventerai più pelato di me. Quando l’ho rivisto anni dopo, Ciccio, completamente calvo, mi ha sempre detto: mannaggia a te mi hai mandato la maledizione”.

Ti sarebbe piaciuto fare l’allenatore di calcio?
“Ho avuto una brutta fanciullezza e una brutta adolescenza. E non ho mai potuto giocare a calcio o fare sport. La vita è stata strana con me. Quando avevo dieci anni la guerra era appena finita. Le radio e i giornali pugliesi dicevano: ora i bambini potranno giocare per strada senza paura. Io invece fui messo in seminario a fare il prete. I genitori poveri all’epoca decidevano la sorte di ogni figlio. E tra tre maschi ero l’unico che studiava. Così pensarono che aveva senso mettermi in seminario. “Un prete può diventare anche cardinale”, si dice dalle mie parti. Prete o avvocato per diventare notaio erano le fissazioni delle famiglie umili di agricoltori. Mio padre era un contadino con la terza elementare. Per questo da ragazzo non ho mai giocato a calcio. Non ho goduto di qualche nuotata, di una partitella. Uscito dal seminario feci un anno da privatista al ginnasio poi scappai con le ballerine dell’avanspettacolo e non tornai più. Anni dopo feci il “presidente” della squadra degli attori. Giocavo per far ridere il pubblico. Indossavo una maglia con un punto interrogativo o la scritta 113 sulle spalle, oppure facevo l’uomo in più, il dodicesimo facendomi cacciare dall’arbitro per dare il tempo di rifiatare ad attori bravissimi, ma da giocatori mica tanto, come Carlo Verdone, Massimo Troisi, Francesco Nuti. Enrico Montesano era quello che giocava meglio all’epoca”.

Lino Banfi e il calcio in tv oggi.
“Ne guardo molto in tv. Guardo tutte le partire della Roma. Oramai i pugliesi mi hanno perdonato questo tifo. Sono più “romeno dei romeni”. Seguo anche le partite internazionali e mi sto appassionando al calcio femminile. Non sapevo ci fossero giocatrici così brave. Ho un nipote, l’unico che mi è rimasto a Canosa, che è presidente di una squadra a 5 femminile”.

Ti faccio un nome: Aristoteles.
“Erano passati alcuni anni. Stavo girando un film in Svizzera e mi vidi arrivare un signore elegante con una borsa di coccodrillo, una macchina di lusso. Venne verso di me, mi sorrise. “Ciao Lino!” e mi abbracciò. Era Aristoteles (Urs Althaus ndr). Non lo vedevo da anni, mi disse che faceva l’assicuratore a Zurigo. La ninna nanna bossanova del film, quella suonata col cucchiaino, che cantavo ad Ari, me la inventai io.

L’allenatore nel pallone è praticamente un tuo film da cima a fondo.
“Al 90% è cosa mia, ufficialmente risulto come soggettista. La gente pensa che da ogni film prenda dei gran diritti d’autore, ma io non prendo un amato chezzo. Il colmo fu una volta quando mi chiesero di consegnare un premio, una Grolla d’oro, al proprietario di una grande azienda home video che aveva venduto quasi un milione di copie de L’allenatore nel pallone. Mi incazzai parecchio. Io il premio non te lo consegno, voi incassate un sacco di soldi e io nemmeno mezzo euro a cassetta. A suo tempo, purtroppo, si firmava un contratto di otto pagine, dove negavi ogni possibile diritto, anche di fronte a nuovi supporti tecnologici e alle programmazioni tv. Guadagnavano solo i produttori e gli sceneggiatori. Solo che quella cassetta, quel dvd, quella trasmissione tv la guardavano perché c’era Banfi, mica per altro”.

Non hai mai girato cinepanettoni…
“Forse perché ho già io un fisico da panettone? Non è una scelta voluta. Non è mai capitato. Tempo fa ne parlai con Aurelio De Laurentiis che li produceva e non me l’aveva mai chiesto. Con suo zio Dino ebbi però due anni di contratto esclusivo tra il 1970 e il 1972”.

Hai poi iniziato a lavorare come commissario dell’Unesco dopo la nomina del ministro Di Maio?
“Macché. Dopo un anno non ci siamo ancora riuniti. Di Maio mi vide parlare alla gente e mi disse: altro che l’attore, dovevi fare il politico, sei uno che sa comunicare. Ho solo conosciuto il presidente Bernabé. Gli ho detto che la prima cosa che voglio proporre è rivalutare ancora di più la figura del nonno. Perché è giusto che la gente di una certa età si merita un premio. Uno a 80 anni ha sempre pagato le tasse. Merita una crociera gratis con la moglie o… con una bella badante”.