Mafie

Leonardo Sciascia, trent’anni dopo la morte smettiamo di citarlo a caso (e sempre per quella storia dei professionisti dell’antimafia)

L’idea di giustizia sempre splende nella decantazione di vendicativi pensieri.
(Gli zii di Sicilia)

La Sicilia, forse l’Italia intera, è fatta di tanti personaggi simpatici cui bisognerebbe tagliare la testa.
(A ciascuno il suo)

“Lei sa come la penso” disse il procuratore generale. Perfetto cominciare: di chi non si sa come la pensa, e se la pensa, e se pensa.
(Porte Aperte)

Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi, sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra. Si credeva che i cretini nascessero soltanto a destra, e perciò l’evento non ha trovato registrazione. Tra non molto, forse, saremo costretti a celebrarne l’Epifania.
(Nero su Nero)

Come diceva Sciascia, come scriveva Sciascia, lo aveva già ipotizzato Leonardo Sciascia. Ma d’altra parte non era proprio Sciascia che scriveva così? Per i trent’anni dalla morte dello scrittore di Racalmuto, andrebbe fatto un regalo postumo a lui e a tutti i suoi genuini estimatori, che esistono e sono tanti: chiedere un decreto legge urgente al governo. Oggetto: vietarne le citazioni a caso. Mettere fuorilegge la perversione che si trascina tra intellettuali, giornalisti e – purtroppo – persino politici. Cioè utilizzare il cadavere dell’autore del Giorno della Civetta come scudo per i propri ragionamenti. Rubarne concetti e stralci di frasi – più o meno sempre le stesse – per legittimare il proprio punto di vista. O – peggio ancora – delegittimare quello altrui.

Cosa direbbe oggi Leonardo Sciascia? Non lo sappiamo e non lo sapremo mai, eppure è la domanda più abusata in editoriali, saggi e articoli su argomenti considerati “delicati”, “controcorrente”, “scomodi”. Subito dopo ecco la risposta: che non è di Sciascia, ma dell’editorialista, saggista o articolista. Ovviamente in questo senso la madre di tutte le citazioni, spinta ben oltre le intenzioni dell’autore, è quella sui “professionisti dell’antimafia“. Locuzione che, vale la pena di ricordarlo, l’autore non usò mai. Quelle tre parole tanto fortunate negli anni successivi si devono all’inventiva di un redattore del Corriere della Sera che così titolò l’articolo pubblicato il 10 gennaio del 1987.

Inutile qui ritornare su una polemica vecchia di trent’anni e ovunque ampiamente dibattuta. In sintesi all’interno di un lungo pezzo su un libro di Christopher Duggan dedicato a Cesare Mori, il fascismo e Cosa nostra, Sciascia scrive che: “I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. Nell’articolo non cita direttamente il sindaco di Palermo Leoluca Orlando – ma parla di “un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso”- mentre fa l’esempio della nomina a procuratore capo di Marsala di “Paolo Emanuele Borsellino“. Nelle due settimane successive alla pubblicazione di quel pezzo sui giornali italiani apparvero articoli a favore (tantissimi) e contrari (molto pochi) al pezzo di Sciascia. Lo scrittore tentò di aggiustare il tiro in una serie di interviste in cui esponeva concetti profetici. Al Messaggero per esempio disse: “Ieri c’erano vantaggi a fingere d’ignorare che la mafia esistesse; oggi ci sono vantaggi a proclamare che la mafia esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi”. Ecco: ora pensate al caso di Antonello Montante, “l’apostolo dell’antimafia” condannato per corruzione e indagato per mafia. Al Giornale di Sicilia, invece lo scrittore raccontò: “Il potere fondato sulla lotta alla mafia? È molto simile, tutto sommato, al potere mafioso e al potere fascista”. Adesso ricordiamoci di Silvana Saguto, l’ex zarina dei beni confiscati a Cosa nostra.

Insomma: Sciascia – una volta di più – aveva predetto il futuro. Ma ci aveva messo in mezzo Paolo Borsellino, che a quel futuro – cioè al nostro presente – purtroppo sarebbe mancato per i motivi noti. E parecchio. Il giudice, però, era un galantuomo. E a Sciascia non rispose mai. L’ex magistrato Giuseppe Ayala raccontò che Borsellino gli disse: “Ho sempre ammirato Sciascia, e continuerò a farlo”. I due si incontrarono, discussero, si chiarirono e – come si dice a Palermo – ci fu la “paciata“.

Poi però uccisero Giovanni Falcone. E Borsellino, durante quello che fu l’ultimo discorso pubblico della sua vita, disse: “Giovanni ha cominciato a morire il primo gennaio del 1988, se non forse l’anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell’articolo di Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera che bollava me come un professionista dell’antimafia, l’amico Orlando come professionista della politica, dell’antimafia nella politica”. Cos’era successo nel frattempo? Era successo che quell’articolo, anzi il titolo di quell’articolo, era diventato carburante di coloro che su questo web giornale abbiamo ribattezzato qualche tempo fa come “i professionisti dell’anti antimafia“. Quelli cioè che dagli anni ‘80 non hanno mai smesso un secondo di bersagliare magistrati, investigatori, collaboratori di giustizia, inchieste e processi: da Falcone a Di Matteo, dal pool antimafia a quello di Mani Pulite, da Tangentopoli al processo Dell’Utri.

Sciascia divenne il loro scudo, il loro alibi, il loro quarto di nobiltà che ne sanava possibili connivenze. Lillo Garlisi, “racalmutese e sciasciano” che a Milano fa l’editore, ha detto a Mario Portanova: “Allora sbagliammo a non cercare di ricucire con Sciascia. La zona grigia trovò l’ideologia che le mancava. Lo regalammo al nemico”.

E il nemico ha un problema con le citazioni. Di Sciascia trovate in giro più o meno sempre le stesse frasi, spesso usate per bastonare qualcuno all’insaputa dell’autore, che riposa in pace da trent’anni sotto una massima di Auguste de Villiers de L’Isle-Adam (“Ce ne ricorderemo di questo pianeta”). “In Sicilia ci vorrebbe un Leonardo Sciascia del 2000”, disse per esempio Francesco Rutelli per esprimere il suo dissenso dalla candidatura di Rita Borsellino. Dopo magistrati e processi, Sciascia divenne un manganello da agitare contro politici poco graditi a questo o a quel partito.

Molto più raramente, invece, è capitato di sentire un Rutelli ricordare il concetto di “linea della palma” per provare a interpretare la diffusione delle piovre nelle città del Nord Italia. Oppure un qualche ministro dello Sviluppo economico che prenda ad esempio il ragionamento sulla Sicilia irredimibile, in cui però occorreva vivere come se irredimibile non fosse, per cercare una qualche chiave di rilancio per il Sud.

Chi scrive non ha l’età per aver conosciuto Sciascia ma se lo immagina come un siciliano solo, nel senso di tendente alla solitudine. Anche quando era in affollata compagnia. In un modo o nell’altro i siciliani migliori non sono portati a fare gruppo, a stabilire solidarietà e legami senza se e senza ma. Sono i siciliani peggiori quelli che hanno il genio del gruppo, della “cosca”: sono parole sue e lui doveva essere così. Solo che in un gruppo lo hanno confinato in eterno, post mortem: il gruppo dei citazionisti a caso e a convenienza. Più pericoloso di qualsiasi cosca.