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Ex Ilva, quando Calenda disse no al rilancio della seconda cordata: “Acciaitalia? I Paesi seri non cambiano regole in corsa”

Così parlò l'allora ministro dello Sviluppo economico nel giorno dell'assegnazione dell'ex Ilva: "Era la migliore offerta, nessun lavoratore sarà licenziato". Era entusiasta il ministro per il Sud, Claudio De Vincenti, che dalle colonne del Messaggero si lasciò andare a una dichiarazione che riletta oggi è quantomeno improvvida: "La scelta fatta ha tutte le carte in regola per far ripartire sul serio il siderurgico"

Era la “migliore offerta” secondo i parametri di gara e “nessun lavoratore sarà licenziato”. E quel rilancio di Acciaitalia, la cordata perdente allora guidata da Lucia Morselli che oggi è a capo di ArcelorMittal, che avrebbe ribaltato la situazione perché i tecnici avevano valutato migliore il suo piano industriale, “era contrario alle procedure di gara e avrebbe presupposto un decreto legge che ci avrebbe riportato all’inizio del processo”.

Così parlò l’allora ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, nel giorno dell’assegnazione dell’ex Ilva ad ArcelorMittal perché “i Paesi seri non cambiano le regole in corsa o ex post”. Una decisione, quella sul rilancio, che venne supportata da un parere dell’Avvocatura di Stato. Era il giugno 2017 e a rileggere oggi gli intenti, a fronte del disimpegno del gruppo con sede in Lussemburgo, ci sarebbe da sorridere se non ci fossero di mezzo circa 11mila dipendenti, quasi altrettanti nell’indotto e una tensione politica palpabile nella maggioranza.

Intervistato da Repubblica, Calenda assicurò che il governo aveva fatto “di tutto per evitare la chiusura di Ilva e tenere insieme le esigenze del lavoro e dell’ambiente in un settore rigidamente disciplinato dalla normativa europea sugli aiuti di Stato. Aggiungo che se l’Italia non si fosse battuta, più di tutti, in Europa per rafforzare i dazi antidumping sull’acciaio, oggi non avremmo offerte tra cui scegliere”.

Ancora più entusiasta era il ministro per il Sud, Claudio De Vincenti, che dalle colonne del Messaggero si lasciò andare a una dichiarazione che riletta oggi è quantomeno improvvida: “L’aggiudicazione risponde a una valutazione complessiva di robustezza dell’offerta in termini finanziari e industriali”. Quindi la disse più chiara: “La scelta fatta ha tutte le carte in regola per far ripartire sul serio il siderurgico”. Il rilancio di AcciaItalia non era stato preso in considerazione perché, osservava, “non è che ognuno si fa le regole a suo piacimento: la procedura ha seguito e continuerà a seguire rigorosamente le regole e le norme di legge. Lo dobbiamo prima di tutto ai lavoratori e ai cittadini”.

In questi giorni, Acciaitalia tentò un rilancio in extremis che non venne preso in considerazione. Alla controfferta prevedeva 600 milioni di euro in più e sostanzialmente pareggiava il prezzo proposto da ArcelorMittal, non partecipò l’intera cordata, composta da Jindal South West, Delfin, Cassa Depositi e Prestiti e Arvedi. Come spiegò una nota dello stesso consorzio furono Jindal e Delfin a prendere “autonomamente gli impegni legati al rilancio” mentre Cassa Depositi e Prestiti, la cui rappresentante era Lucia Morselli, e Arvedi “non aderiscono”.

Dall’altra parte, invece, assieme ad ArcelorMittal, nel consorzio AmInvestco Italy c’erano il gruppo Marcegaglia e Banca Intesanpaolo. La proposta di assegnazione dei commissari Piero Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba venne vidimata anche dal Comitato di sorveglianza a fine maggio. Nel “collegio sindacale” delle società in amministrazione straordinaria – che ha funzione consultiva – c’erano, tra gli altri, un rappresentante di Eni, la cui presidente all’epoca era già Emma Marcegaglia, e uno di Intesanpaolo. L’istituto bancario evitò di mandare il proprio rappresentare alla riunione, Eni invece era presente e votò a favore. La questione venne svelata il 9 giugno 2017 da Ilfattoquotidiano.it.

Dal ministero, a cose fatte, fecero trapelare a Ilfattoquotidiano.it che Calenda “si è arrabbiato”, eppure non aveva esercitato alcun tipo di moral suasion nei confronti della partecipata pubblica affinché si astenesse per ragioni di opportunità. La questione, oltre un anno dopo, finì davanti all’Avvocatura di Stato perché era tra i quesiti posti da Luigi Di Maio sulla legittimità dell’iter di gara. Nelle risposte, l’Avvocatura spiegherà che il possibile conflitto d’interessi era stato spazzato via perché, proprio il giorno della pubblicazione del nostro articolo, il ministero dello Sviluppo Economico adottò un nuovo decreto ministeriale di aggiudicazione ad ArcelorMittal, confermativo di quello del 5 giugno, a valle di una nuova riunione del Comitato di sorveglianza al quale non si presentò il rappresentante di Eni.