Diritti

Parma, il sindaco riconosce due mamme ma la procura dice no. E le ragioni sono controverse

Il matrimonio è un “istituto riservato solo ed esclusivamente alle persone di sesso diverso” ed è “caratterizzato dalla finalità procreativa che lo differenzia dall’unione omosessuale”. E, ancora, “anche le forme più estreme di procreazione medicalmente assistita postulano il concorso dei due sessi, perché anche in laboratorio la partecipazione dei due sessi è necessaria per il tramite dei gameti maschili e di quelli femminili”. Sono alcune delle sorprendenti parole usate dal procuratore della Repubblica di Parma Alfonso D’Avino e dal sostituto Umberto Ausiello, in un ricorso inviato al tribunale della città emiliana.

Scopo (per il momento fallito)? Che venga dichiarato illegittimo il riconoscimento di genitorialità a una donna che non è la madre biologica di una bambina di pochi mesi, ma che alla madre biologica è unita civilmente. Il tutto, nelle intenzioni dichiarate, per tutelare l’interesse di un minore e, di rimbalzo, impedire che la piccola assuma il cognome di entrambe le mamme.

È una vicenda che, nei suoi diversi aspetti, finisce per chiamare in causa diritti inviolabili, garantiti dall’articolo 2 della Costituzione italiana, e che comprendono, oltre al nome e all’identità di una persona, ancor prima l’interesse di un minore. Diritti di cui parla pure, solo per citare alcuni testi, il trattato istitutivo dell’Ue, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) e quella dell’Onu del 1989.

Il nodo dello stato civile

La questione sembra complessa, e lo è, ma tracciandone i contorni si comprende a pieno ciò di cui si parla. Nell’autunno 2018 a Parma nasce una bambina, Alice (il nome è fittizio, così come quello delle sue mamme). La partorisce Mara, 36 anni, da anni legata alla coetanea Ottavia. Le due donne, dopo aver deciso di mettere su famiglia, si uniscono civilmente nell’estate dello scorso anno, quando Alice è già in arrivo.

Nel momento in cui la bimba viene alla luce, Mara la riconosce come sua figlia, ovviamente, e qualche settimana dopo Ottavia, con il consenso di Mara, presenta una richiesta al Comune di Parma perché anche lei sia ufficialmente riconosciuta come madre di Alice. Contestualmente viene chiesto anche che la piccola porti i cognomi di entrambe le madri. L’ufficiale di stato civile, tuttavia, rifiuta di adempiere perché, a suo avviso, la normativa vigente non consente di riconoscere la condizione di genitore a due persone dello stesso sesso. Allora interviene il sindaco, Federico Pizzarotti, in forza delle sue funzioni, che a fine anno compila un atto in cui Ottavia, sempre d’accordo con Mara, dichiara di riconoscere Alice come sua figlia.

Pizzarotti, il suo vice Marco Bosi e l’assessore alle Pari opportunità Nicoletta Lia Rosa Paci si dichiarano soddisfatti e ai giornali rilasciano dichiarazioni di questo tenore: “Donare felicità non deve essere un atto rivoluzionario”, “l’anagrafe ha il compito di cogliere le esigenze di una società in continuo mutamento” e il gesto del sindaco “permetterà a queste famiglie di vivere una vita con maggiori possibilità”.

Giunti a questo punto, però, non ci si attenda un lieto fine, perché dallo stato civile di Parma parte una segnalazione alla procura della Repubblica. Se ne occupano il procuratore Alfonso D’Avino e il sostituto Umberto Ausiello che, a inizio 2019, sentono chi ha inviato la segnalazione. In base alle sue parole, l’iter seguito da Pizzarotti non è previsto dalla normativa ed è stato forzato “il concetto di madre e padre”.

Oltre il patrimonio genetico

Di qui al ricorso della procura, che reca la data del 10 aprile 2019, il passo è breve. In esso, pur non ravvisando profili di natura penale, si citano, tra l’altro, la Costituzione, il codice civile, la legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita e la legge Cirinnà, che nel 2016 ha introdotto le unioni civili. In estrema sintesi, le conclusioni dei magistrati di vicolo San Marcellino sono quella riportate in apertura, ma il tribunale, senza nemmeno fissare udienza, ha dichiarato lo scorso 6 giugno l’inammissibilità del ricorso.

Intanto, però, la prefettura di Parma, con una raccomandata a mano a Mara, la mamma biologica, ha fatto sapere il 12 giugno 2019 di “essere orientata a respingere l’istanza” sul cambio di cognome di Alice perché, tra l’altro, dopo aver condotto un’istruttoria e aver formulato riflessioni, deve essere “valutata la valenza” dell’azione della procura. La quale, a fronte della decisione del tribunale di Parma, si rivolge alla Corte d’Appello di Bologna riproponendo le proprie istanze che sarebbero state mal interpretate.

Le notizie circolate in questi mesi, anche in forza di una nota della procura, non riescono pienamente a fare il punto sulla questione e allora i legali delle due mamme, gli avvocati Valentina Migliardi e Andrea Massimo Molè, convocano una conferenza stampa. Facendo notare che alle figure di padre e madre è stata sostituita quella di genitori e di genitorialità, che il lessico delle convenzioni internazionali ormai è gender neutral e che la famiglia non è più una questione di gameti, ma si esplicita attraverso una “relazione di fatto stabile e duratura incentrata sull’affettività e mutuo sostegno”.

L’esigenza dei legali di convocare i giornalisti è stata dettata dall’“urgenza di fare chiarezza su un tema che […] sotto un profilo di diritti civili ha assunto e assume rilevanza pubblica, soprattutto alla luce del taglio politico che […] è stato dato alla vicenda”. Un taglio in base al quale – si deve dedurre dal ricorso dei magistrati – per un bambino sarebbe meglio un genitore solo piuttosto che due dello stesso sesso. Con buona pace di chi si assume la responsabilità di volere un figlio (anche non biologico, come già accade peraltro nei casi di adozione o di fecondazione eterologa), prendersene cura ogni giorno, contribuire alla sua educazione e più sinteticamente esserci sempre. Al di là del vincolo formale che lega due adulti e del patrimonio genetico che possono o meno trasmettere.