Tecnologia

Apple nei guai per aver ‘gonfiato’ i prezzi sull’app store. Ma hanno ancora senso queste cause?

La Corte Suprema degli Stati Uniti ha dato il via libera a una class action nei confronti di Apple per aver “gonfiato” i prezzi sul suo App Store. Una decisione che si inserisce in un quadro già complesso per la casa di Cupertino, che nelle scorse settimane ha incassato anche le bordate di Spotify, che ha (sonoramente) protestato nei confronti delle policy Apple e delle percentuali che la società fondata da Steve Jobs pretende da chi vende tramite il suo store ufficiale. Apple, infatti, tiene per sé il 30% degli incassi (diventano il 15% dopo un anno) come commissione sulle vendite. Una pratica che ha irritato Spotify, soprattutto nell’ottica della rivalità con Apple Music, il servizio concorrente gestito direttamente dalla stessa Apple. La decisione della Corte Suprema, però, va oltre. Consente infatti anche ai consumatori di fare causa ad Apple per “pratiche scorrette”.

L’accusa di “abuso di posizione dominante” ha già interessato altri giganti nel settore It, come Microsoft e Google. Da qualche tempo, però, le cause di questo tipo si stanno concentrando su una situazione particolare, quella cioè di chi gestisce una piattaforma (dai sistemi operativi ai motori di ricerca) e contemporaneamente dei servizi in concorrenza con qualcun altro.

La questione, ormai, è stata assimilata dall’opinione pubblica come perfettamente normale, al punto che molti esultano ogni volta che Microsoft prende schiaffoni dall’antitrust europeo. A guardare un po’ meglio, però, la logica che regge questi provvedimenti non è proprio solidissima. Prima di tutto perché il concetto di antitrust, uno dei cavalli di battaglia di Adam Smith e dei suoi epigoni della scuola di Chicago, nell’ambito tecnologico fa acqua da tutte le parti. Nel settore It i processi di concentrazione non sono solo frequentissimi, ma anche naturali. E pensare che “forzare” un sistema di concorrenza sia anche solo possibile, francamente, è da fessi. Quando poi si parla di servizi interni alle piattaforme, la logica scricchiola ancora di più.

Qui, infatti, non si sta parlando di una “posizione dominante” nel settore smartphone (negli Usa Apple è ferma al 30% con un 60% nelle mani di Android) come lo era per i sistemi operativi per computer nel caso di Microsoft, ma di una posizione dominante all’interno del suo stesso App Store. Ed è qui che c’è qualcosa che non torna. Proviamo a immaginare un contesto diverso, per esempio quello di una catena di alberghi che concede la possibilità di aprire un ristorante all’interno dei suoi hotel, che faccia concorrenza al ristorante “ufficiale” dell’albergo. Si è mai sentito di qualcuno che si metta a questionare sull’importo dell’affitto richiesto? O sul fatto che il ristorante di proprietà dell’albergatore non paghi l’affitto? E ancora: ha senso che si permetta ai consumatori di fare causa all’albergatore perché l’affitto elevato si ripercuote sui prezzi del ristorante in questione?

Tanto più che la percentuale richiesta da Apple è in linea con quella chiesta da Google sul suo Google Play. Ma questo è un dettaglio. Se anche Apple chiedesse l’80% dei guadagni, siamo sicuri che ci si troverebbe di fronte a una pratica scorretta?

L’impressione è che quando si parla di computer, smartphone e simili, si tenda a fare un po’ di confusione, anche grazie a una buona dose di ipocrisia. Bisognerebbe dirsi, per esempio, che le percentuali sulle vendite tramite store sono parte integrante del modello di business di Apple e Google, così come i proventi derivanti dalla profilazione degli utenti rappresentano una bella fetta di guadagno per i produttori di browser o i gestori di motori di ricerca e social network. Continuare a rappresentare Google, Apple, Facebook e soci come fornitori di piattaforme che avrebbero una loro “etica” è una buffonata. Lo è quando si usa questa rappresentazione per metterli al riparo dalle critiche, lo è allo stesso modo quando li si minaccia di multe perché non si comportano come associazioni senza fini di lucro.

Capiamoci: qui non si tratta di difendere i colossi It (che hanno mezzi e disponibilità economica per difendersi da soli) ma di accendere i riflettori su una situazione che sta diventando paradossale. I problemi di concentrazione nella gestione dei servizi Internet (soprattutto quando si parla di informazione) è un problema reale, ma continuare a cercare di affrontarla con lo strumento dell’antitrust è un po’ come cercare di mangiare una zuppa usando un paio di pinze. Forse bisognerebbe prendere un po’ più sul serio lo stimolo lanciato sulle pagine del New York Times dal co-fondatore di Facebook Chris Hughes, che parlando dello strapotere di Mark Zuckerberg suggerisce un intervento legislativo per regolamentare il settore.