Politica

Medicina, in Senato proposta di legge su iter per donazione del proprio corpo dopo la morte a scopi didattici

Il testo in nove articoli stabilisce che ministero della Salute e Miur individuino le strutture universitarie e le aziende ospedaliere di riferimento per la conservazione e l’utilizzazione delle salme

Donare il proprio corpo dopo la morte per addestrare i medici e aiutare la ricerca. Una scelta per qualcuno macabra. Ma che può rappresentare un gesto concreto per il progresso scientifico e per salvare vite umane. Nella misura in cui un chirurgo che affina la pratica su un cadavere sarà più sicuro e preciso quando avrà sotto i ferri un paziente. Riducendo il rischio di errori. All’università di Bologna sono già arrivati 340 moduli di consenso firmati per l’uso del proprio corpo post mortem.

“Ci hanno contattato da tutta Italia, soprattutto over 70 ma anche qualche giovane tra i 18 e i 24 anni, grazie al passaparola – racconta Lucia Manzoli, professoressa di Anatomia e responsabile del programma di donazione, avviato nel 2014 -. Finora abbiamo ricevuto una ventina di salme su cui gli studenti hanno potuto studiare l’anatomia umana e sperimentare interventi chirurgici. Il corpo viene utilizzato per circa un anno e infine cremato o consegnato alla famiglia per il funerale a seconda della disposizione del donatore”. A farsi carico delle spese è l’Ateneo. “Paghiamo noi il trasporto della salma, la bara o la pratica di cremazione. Non è previsto nessun compenso – specifica Manzoli -. Inoltre, la disposizione di donazione può essere revocata in qualsiasi momento tramite raccomandata”.

Tuttavia in Italia si contano sulle dita di una mano le università che hanno attivato progetti di donazione sebbene la pratica della dissezione dei cadaveri sia ritenuta indispensabile per tutta la medicina. Il motivo non è solo la quasi assenza di sensibilità sul tema e quindi il numero bassissimo di donazioni. Ma è soprattutto la mancanza di una normativa a livello nazionale che disciplina il percorso della donazione e la manifestazione del consenso da parte del soggetto donatore fino al momento del decesso. È questo obiettivo che vuole raggiungere la proposta di legge a prima firma di Pierpaolo Sileri, presidente della commissione Sanità al Senato, che con un passato da chirurgo a Tor Vergata sente urgente e vicina la questione. “L’utilizzo del cadavere per la formazione oltre che rappresentare una esperienza diretta di formazione, attiva e non riproducibile, garantisce anche un forte coinvolgimento emotivo, un contatto con la morte indimenticabile che come dimostrato promuove valori umani ed etici che il medico porterà sempre con sé”.

Il disegno di legge sulla donazione del proprio corpo dopo la morte ai fini di studio, formazione e ricerca scientifica sarà ancora per poco in discussione a Palazzo Madama e poi passerà a Montecitorio. Consiste di nove articoli in cui si stabilisce anche che ministero della Salute e Miur individuino le strutture universitarie e le aziende ospedaliere di riferimento per la conservazione e l’utilizzazione delle salme. Non è comunque la prima volta che il Parlamento prova a regolamentare questa pratica. Nel 2014 fu approvato dalla commissione Affari sociali della Camera un testo che unificava diversi disegni di legge in materia, che poi però si è arenato al Senato. Anche il Comitato di Bioetica, nel suo parere del 30 maggio 2013, ha sottolineato la “valenza etica della donazione” del corpo post mortem. Fino adesso però i chirurghi italiani che volevano imparare tecniche più complesse e sperimentare nuove tecnologie sono dovuti andare all’estero, soprattutto in Francia, Austria, Germania o negli Stati Uniti, a seguire corsi che invece avrebbero potuto fare qui. A parte qualche iniziativa nel pubblico e nel privato, l’Italia è ancora appesa a un regolamento di polizia mortuaria che richiama l’articolo 32 di un Regio decreto del 1933, tuttora vigente, in cui si stabilisce che i corpi non reclamati da congiunti fino al sesto grado di parentela possono essere utilizzati per l’insegnamento e le indagini scientifiche.

L’Università di Padova ha fatto da apripista. “Siamo partiti con il programma di donazione delle salme ormai 35 anni fa. Oggi riceviamo dalle due alle tre dichiarazioni di futuri donatori alla settimana e un numero uguale di cadaveri al mese – dichiara Raffaele De Caro, direttore del dipartimento di Anatomia e promotore del progetto -. Facciamo un colloquio informativo prima che il donatore dia il consenso finale, gli spieghiamo le finalità e l’importanza che anche i familiari siano d’accordo”. Nessuna pubblicità. “La gente ci trova navigando sul web, non facciamo spot, il tema è troppo delicato e potrebbe alterare la sensibilità di molte persone”, spiega De Caro. Anche l’ateneo di Torino ha rodato la pratica, ma i numeri sono ancora ridotti. “Abbiamo raccolto 200 dichiarazioni di donazione dal 2001 e ogni anno abbiamo a disposizione da uno a tre corpi, che dopo sei mesi restituiamo ai parenti. Noi non ci facciamo carico del funerale”, fa sapere Grazia Mattutino, responsabile del laboratorio per lo studio del cadavere. L’Università di Milano ci sta provando ormai da qualche anno, ma “è difficile ottenere il finanziamento per la conservazione del cadavere, per il trasporto e il funerale dopo – dice Daniele Gibelli, responsabile del progetto Pandora, per lo sviluppo della donazione.

Nel frattempo stanno proliferando laboratori a pagamento, rivolti a specialisti, che importano cadaveri dagli Stati Uniti. Come l’Aims academy, centro di chirurgia mini invasiva all’interno dell’ospedale Niguarda di Milano. “Ogni anno riusciamo a organizzare circa 50 corsi e a importare più o meno 20 corpi – spiega il fondatore e presidente Raffaele Pugliese -. Per il viaggio e il trattamento di sette salme spendiamo più di 20mila euro. Ogni branca specialistica, dal neurochirurgo al ginecologo e l’otorinolaringoiatra, si eserciterà sulla parte anatomica competente. L’uso del cadavere è limitato per cinque mesi, dopodiché verrà tumulato al cimitero di Lambrate o cremato con  la raccolta delle ceneri all’interno di un’urna”. Il percorso di apprendimento sui cadaveri è fondamentale soprattutto dopo l’avvento di strumentazioni avanzate. “Non si impara a usare la tecnologia se non la si usa realmente. Oggi ci sono procedure mini invasive impensabili un tempo, che permettono di rimuovere un piccolo tumore al colon per via endoscopica per esempio, senza aprire il paziente, che non provocano sanguinamenti e complicanze. Ma quando uno esce dalla scuola non sa usare questi strumenti, quindi è indispensabile il training fuori dalla sala operatoria, per ridurre danni e costi e aumentare i benefici”. Dal 2018 pure l’Humanitas ha inaugurato un centro di simulazione che impiega cadaveri importati dagli Stati Uniti. E l’Associazione dei chirurghi ospedalieri italiani (Acoi), fa sapere il presidente Pierluigi Marini, ha intenzione di aprirne un altro.