Calcio

Valentino Mazzola, 100 anni fa nasceva il fuoriclasse che piaceva alla rivoluzione e sognava gli uragani

IL RACCONTO - Due aneddoti della vita del capitano del Grande Torino. Che era un esempio per Che Guevara e sognava di andare a giocare all'Huracan, in Argentina, lontano dall'Italia e dal mito che ha contribuito a creare

Per capire quanto forte sia stato l’impatto culturale del Grande Torino e del suo capitano occorre guardare lontano. Stiamo parlando di uno dei primi cinque talenti della storia del nostro calcio. E di una formazione che, un po’ per imprese e un po’ per destino, ha saputo ritagliarsi il suo spicchio di immortalità. Stiamo parlando degli anni ’40. E per un’Italia frastornata dagli echi del fascismo quella squadra non è solo un orgoglio, è un riscatto. Quando squilla la tromba e il Tulén rimbocca le maniche della maglia granata, anche la storia sembra potersi ribaltare. Così la cronaca diventa racconto e di bocca in bocca si trasforma in mito, incontrando parole e pensieri lontani. Fantasie sudamericane, persino. Il 26 gennaio 1919 nasceva a Cassano d’Adda Valentino Mazzola, il fuoriclasse che piaceva alla rivoluzione e sognava gli uragani.

Hasta el sistema, siempre! – Giugno 1952, Leticia, estremo Sud della Colombia. Due giovani risalgono il Rio delle amazzoni con poca fortuna. Sono in viaggio da circa sei mesi. La motocicletta con cui sono partiti da Buenos Aires, una Norton 500 M18 del ’39, li ha abbandonati da tempo. E il loro viaje attraverso l’America Latina si è fatto più avventuroso di quanto avessero immaginato. Argentini entrambi, uno si chiama Alberto Granado, ha 30 anni ed è uno scienziato. L’altro invece di anni ne ha 24, si rasa la testa e studia medicina. Con sé ha un diario, che crescerà fino a diventare un libro (Latinoamericana) e poi un film (I diari della motocicletta). Il suo nome è Ernesto Guevara. Non è ancora el Che e neppure il Comandante, per quello c’è tempo. Al momento gli amici preferiscono chiamarlo Furibondo Serna, ridotto Fuser, che è un po’ uno sfottò e un po’ una medaglia. Il soprannome, infatti, prende il cognome della madre – Celia de la Serna – e lo anticipa con un aggettivo che ritrae splendidamente quella sorta di grugnito che gli esce dai polmoni. Già, perché Ernesto gioca a rugby, ma ha l’asma. Parecchia. E proprio per questo si posiziona ala, per non allontanarsi troppo dalla bomboletta che conserva a bordocampo. Accanto alla palla ovale, però, Guevara mette quella da futbol. Tra i pali se la cava piuttosto bene e insieme al compagno Granado difende i colori dell’Independiente Sporting. Ma soprattutto è un allenatore nato.

In lui vedevano tutti il meglio del nostro calcio sopravvissuto alla guerra (Gianni Brera)

Sfruttando queste doti, arrivato a Leticia, il ragazzo stringe un patto con un ufficiale colombiano: in cambio di vitto, alloggio e un passaggio per Bogotà, Fuser garantisce un piazzamento dignitoso della squadra della guarnigione al torneo di calcio locale. Per raccontare questa storia servirebbe un articolo a parte. Vi basti sapere che i militari capitanati dal duo Granado-Guevara raggiungono la finale (perdendo solo ai rigori) e che questo piccolo miracolo lo si deve al “sistema“(o WM). Si tratta di uno schema di gioco basato sul controllo del centrocampo, l’introduzione dello stopper e un maggior equilibrio tra fase difensiva e offensiva. A idearlo è Herbert Chapman negli anni ’30, ma a renderlo grande è il Torino un decennio più tardi. Guevara chiede a Granado di fare il Mazzola e mette in campo i suoi con uno schieramento che ricorda tanto quello dei granata. Anzi, che è quello dei granata. Sì, perché Ernesto conosce bene i campioni inghiottiti dalla nebbia di Superga. Soprattutto il capitano. Li ha intercettati quattro anni prima a San Paolo, quando i club paulisti decidono di invitare in Brasile i ragazzi di Ferruccio Novo.

Saudade – La tournée del luglio 1948 vede i piemontesi affrontare la torcida brasiliana in quattro match. Il primo è un pareggio contro il Palmeiras, 1 a 1, con gli italiani ancora sconquassati dal jet lag di un viaggio interminabile. Tre scali aeroportuali e un clima rovente combinano la sconfitta della seconda gara, 2 a 1 a favore del Corinthians. Nelle successive due partite, però, Mazzola e compagni ingranano. Il capitano trascina, segna e incanta. La Portuguesa è surclassata, 1-4, e il pubblico applaude il pirotecnico 2 a 2 contro il San Paolo. “Laggiù, dove il calcio è arte, noi eravamo l’unica squadra del Vecchio continente amata dai brasiliani” dirà il difensore granata Sauro Tomà. Un affetto quello del popolo verdeoro rimasto intatto negli anni. Alimentato, anzi, dai ricordi di una comunità italiana viva e numerosa. Non è un caso, infatti, che al suo arrivo in Italia, nel 1958, l’attaccante José Altafini sia accompagnato da un soprannome ingombrante, seppur appena storpiato: Mazola.

Sogni e destino – Più che per quella tournée, tuttavia, il 1948 è un anno centrale nella nostra storia per un altro motivo. Il Torino ha appena vinto il suo quarto scudetto consecutivo. Valentino recita all’ombra della Mole da ormai sei stagioni e se mai c’è stato un momento in cui il capitano ha pensato di dire addio ai granata è proprio questo. Le voci lo danno vicino all’Inter del presidente Carlo Masseroni. Sul piatto ci sono uno stipendio da favola e la possibilità, a 29 anni, di avvicinarsi alla sua Cassano. A stuzzicare le fantasie del Tulén – soprannome ereditato dal vizio d’infanzia di prendere a calci le tolle di latta incontrate per strada – sono però altri pensieri. Una meta più esotica e insospettabile: il Club Atlético Huracán di Buenos Aires.

In quegli anni in Argentina domina La Máquina del River Plate. Adottano anche loro il “sistema” e sono già Millonarios. Félix Loustau, Juan Carlos Muñoz, Ángel Labruna e Alfredo Di Stéfano sono solo alcuni dei nomi che compongono un vero e proprio team di all star. L’unica formazione in grado di competere con il Grande Torino, dicono in molti. L’Huracán, al contrario, non brilla né per gioco né rosa, ma conserva un certo fascino. È la sesta squadra del Paese e per simbolo ha il globo aerostatico con cui l’ingegner Eduardo Newbery sorvolò i cieli di Argentina, Brasile e Uruguay nel 1909. Da qui il soprannome El globo, appunto. Negli anni 20 ha messo in bacheca quattro titoli nazionali, ma soprattutto ha potuto applaudire dal ’31 e al ’43 il talento di Herminio Masantonio, tra i più grandi calciatori argentini di ogni epoca. Letale sotto rete, è ancora oggi il centravanti più prolifico della storia del club (254 reti in 349 presenze), nonché il terzo miglior marcatore della Primera Division. Un vero gioiello. E con questo mito Mazzola ci è cresciuto, perché le leggende del calcio albiceleste attraversano l’oceano insieme ai racconti dei migranti e nutrono l’immaginario di tanti ragazzi italiani, perfino nella provincia di Milano.

Insomma, l’idea di vestire la camiseta dell’Huracán sgomita nella testa di Valentino, che lo confessa persino alla rivista Goles. Immaginate, il “Messi degli anni ‘40”, come avrà modo più tardi di definirlo il Clarín, che dichiara di sognare di giocare per Los Quemeros, i piromani di Buenos Aires. La redazione mette in contatto all’istante i vertici della società bonaerense, il Torino e Mazzola. Della trattativa si sa poco e niente, alla fine però i sogni restano tali e a spuntarla è il cuore. Quella fascia al braccio vuol dire troppo per il capitano e Novo gli propone un adeguamento niente male. Mazzola ringrazia e rimanda l’incontro con i campi argentini a più tardi, una volta conclusa la propria carriera al Filadelfia. Un piccolo sogno sudamericano. Evidentemente, però, il destino aveva altri progetti.

Twitter: @Ocram_Palomo