Diritti

Violenza donne, parla un uomo in cura. Psicologo: “Problema culturale, non di raptus. Chi maltratta non lo ammette”

Urla, minacce, schiaffi, sottomissione fisica e psicologica. In quei momenti vuoi solo decidere come, dove, quando e perché. In pratica tutto”. Luca (nome di fantasia), 41 anni, è uno dei settanta uomini violenti che dal 2011 a oggi hanno varcato la soglia del centro per uomini maltrattanti di Forlì. Un anno fa ha deciso di rivolgersi alla struttura e una volta a settimana incontra uno psicoterapeuta. Non è la prima volta che chiede aiuto: già lo aveva fatto in passato, altrove, ma senza ottenere i risultati sperati. Poi, con la fine della storia con la sua compagna, che non l’ha mai denunciato, ha deciso di riprovarci e si è rivolto al Ctm di Forlì. E potrebbe, ancora una volta non bastare. “Bisogna essere consapevoli, non basta il pentimento”, dice lui stesso a ilfattoquotidiano.it, salvo poi ribadire che “anche le donne hanno delle responsabilità”: parole, queste, che manifestano esattamente quella mentalità e quelle idee da combattere e sradicare perché alla base della violenza stessa.

In Italia sono migliaia gli uomini violenti: come l’ha definito l’Istat nell’ultimo report dal titolo “La violenza sulle donne”, si tratta di un “fenomeno ampio, diffuso e polimorfo, che incide gravemente sulla quotidianità”. A fine 2017, in Emilia-Romagna, erano 196 gli uomini ad aver chiesto aiuto a uno dei dieci centri in Emilia-Romagna, di cui solo quattro (Modena, Bologna, Parma e Rimini) a gestione pubblica. In Italia, sempre stando ai dati ufficiali di fine 2017, le strutture create erano 25. Numeri molto bassi a fronte della montagna di casi di violenza registrati: sono 31mila le denunce negli ultimi cinque anni presentate solo in Regione. In Italia, ogni tre giorni una donna muore per mano di un uomo e in un anno si contano oltre un centinaio di vittime di femminicidi. 

Perché, allora, gli sportelli di ascolto per uomini stentano a riempirsi? “Il grande scoglio resta un sistema, il nostro, permeato dal machismo“, spiega a ilfattoquotidiano.it lo psicologo e psicoterapeuta del centro di Forlì Daniele Vasari. “Il problema è di tipo culturale: chi maltratta la propria compagna quasi sempre non riconosce di vivere un disagio e questo fa sì che difficilmente ci si rivolga a un centro spontaneamente”, aggiunge il collega Andrea Spada. “La maggior parte dei nostri utenti arriva spinto da mogli o compagne, o su suggerimento del proprio avvocato”. Ed è soprattutto tra questi ultimi che il tasso di abbandono è molto alto, “se le leve motivazionali non si accendono, dopo due-tre sedute ci si ritira”. Il percorso terapeutico, che si articola in sedute individuali settimanali con lo psicologo, mira “alla rivisitazione di stereotipi sbagliati sulla relazione uomo-donna – continua Spada – e in alcuni casi ha portato chi ha seguito la terapia a passare da un atteggiamento minimizzante circa le proprie azioni all’ammissione del proprio agito”.

Il percorso è molto lungo e complesso, come testimoniano le parole di Luca a ilfattoquotidiano.it. L’uomo riconosce la sua “debolezza” nel pretendere “rispetto” in modo violento, ma continua a colpevolizzare le donne. Un segnale molto pericoloso di una consapevolezza che non ha ancora raggiunto. “’Se non fai quello che dico, ti do uno schiaffo’ ripetevo alla mia compagna”, racconta Luca. ‘Ora te lo dico, la prossima volta te lo do’. Era debolezza in realtà, e senso di fallimento”, dice. “Lei non faceva nulla di male, ma chi agisce violenza pensa sempre che i propri scatti d’ira dipendano dagli altri”. A spaventarlo più di tutto, è stato “il senso di disagio” che provava quando stavo in mezzo agli altri. “Ogni volta che balzava alle cronache qualche fatto di violenza mi sentivo colpevole come se l’avessi commesso in prima persona”.

La compagna, che a lungo ha subìto le sue vessazioni, lo ha lasciato. Senza denunciarlo. Ora da un anno Luca è in cura a Forlì. “Vorrei dire a chi è un uomo maltrattante come lo sono stato io che ci si può sottrarre alla violenza, si può imparare a gestirla. Ma da soli non ci si salva, servono strutture e psicologi perché per cambiare bisogna diventare consapevoli, non basta essere pentiti”. 

E proprio Luca, nell’intervista rivela che quella mentalità maltrattante per lui è ancora per molti versi intatta: “Vorrei dire alle donne – oggi più aggressive e sfacciate delle nostre madri e delle nostre nonne, un tempo sicuramente più educate – che, con tutti gli uomini violenti che ci sono in giro e che per varie ragioni non si fanno aiutare, può essere pericoloso approcciarsi a loro in maniera tale da ‘attivarli’. Non c’è bisogno di buttare a tutti i costi il cerino sulla tanica di benzina sol perché c’è questa rabbia o cattiveria che anche le donne hanno scoperto di avere”. Ed è qui che vengono al pettine tutti i nodi della questione. A fianco degli sforzi di riflessione, permane una sorta di “residuo fisso”, refrattario: una cultura intrinsecamente maschilista in cui albergano gli stereotipi più difficili da scardinare e di cui la violenza genere è il frutto malato. “Dall’uomo padrone siamo passati alla donna che si è ribellata” osserva Luca, con una considerazione che tradisce l’idea di una subalternità femminile stabilita ‘per natura’ e oggi sovvertita dai fatti. Ed è anche su aspetti come questi che si concentra il lavoro degli psicoterapeuti impegnati contro la violenza di genere. “Negli uomini cerchiamo di modificare la loro ‘diagnosi culturale’”, spiega appunto Vasari, psicologo e psicoterapeuta al Centro per uomini maltrattanti di Forlì. “Affermare che anche le donne sono violente è una delle giustificazioni più comuni che ci troviamo ad ascoltare nei nostri incontri, un modo per dire ‘non è solo un problema degli uomini, ma anche delle donne’. Intanto partiamo dall’uomo”. 

Per le strutture dedicate agli uomini maltrattanti fondamentale è fare rete con i Centri antiviolenza (CAV) del territorio: “Sono interlocutori indispensabili per agire di concerto su autori e vittime di violenza”, continua Vasari. A Forlì il Ctm è convenzionato, infatti, con il Comune, il Centro Donna e i servizi sociali. “Se, durante un colloquio, un uomo ci dice che ha intenzione di tornare a casa e ‘fare quello che deve fare’ dobbiamo essere in grado di coordinarci con chi si prende cura delle donne e intervenire tempestivamente, oltre che per monitorare i risultati della terapia . È impensabile immaginare un Ctm slegato dal resto del territorio. Come a Isernia, dove siamo stati invitati per un incontro con gli studenti e un corso di formazione rivolto a operatori, salvo poi scoprire che di lì a pochi giorni avrebbe chiuso il centro antiviolenza perché non era stato rifinanziato”. 

Già, i finanziamenti. Il 20 luglio 2017 è stato pubblicato sul sito del Dipartimento per le Pari Opportunità un bando, da 10 milioni di euro per attività contro la violenza di genere, che ha destinato una piccola parte delle risorse anche per progetti a supporto del cambiamento di uomini maltrattanti. “Noi ci finanziamo in maniera autonoma – spiega Spada – offrendo sedute di psicoterapia a prezzi calmierati, 35 euro l’ora. Abbiamo scelto di lavorare con gli uomini maltrattanti perché crediamo fortemente in questa causa, in cui investiamo gli introiti provenienti anche da altre nostre attività”.

“Bisogna puntare sulla crescita culturale, non sull’assistenzialismo”, conclude Vasari. “Per il futuro ci piacerebbe sovvertire la prospettiva per cui è sempre la donna che, in caso di violenza domestica, deve abbandonare la casa. Non ha senso. È l’uomo ad avere un problema e che, in questo caso, dovrebbe essere inserito in una struttura, non il contrario”.