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Tennis, l’Australian Open vara il super tie-break all’ultimo set: in difesa delle maratone resta solo il Roland Garros

Dopo Wimbledon che ha deciso di introdurre il tie-break sul 12 pari, cede anche l'organizzazione australiana che ha introdotto la nuova formula al meglio dei 10 punti. Resiste la terra rossa parigina, ma le novità in arrivo sembrano andare nella direzione dell'addio definitivo ai match potenzialmente infiniti e alla loro epica

La colpa originaria è di Ricardo Alonso González, detto Pancho. Un ragazzone di Los Angeles alto un metro e 91 centimetri che imparò a giocare a tennis da autodidatta e tra gli Anni 40, 50 e 60 vinse 12 titoli dello Slam. Gonzalez è stato definito da Sport Illustrated “l’uomo che vorresti al servizio per salvare l’umanità”. Grazie alla sua altezza, aveva una battuta micidiale che gli consentiva di non prendere praticamente mai un break. Ma fu un match di Wimbledon del 1969, vinto da un 41enne Gonzalez contro Charlie Pasarell per 22-24 1-6 16-14 6-3 11-9, dopo 112 giochi, 5 ore e 12 minuti, a convincere definitivamente qualcuno che qualcosa nel regolamento del tennis andava cambiato. Quel qualcuno si chiamava Jimmy Van Allen, l’inventore del tie-break.

Oggi il tie-break è diventato un elemento imprescindibile del tennis moderno, per evitare appunto che anche un primo set possa terminare 22-24 come in quel primo turno di Wimbledon di 50 anni fa. Però, almeno negli Slam, l’ultimo e decisivo set è sempre stato lasciato libero da questa regola, regalando all’epica dello sport partite indimenticabili. Fino a questa stagione l’unica eccezione erano gli Us Open, dove da sempre in caso di 6 pari, ci si gioca tutto al meglio dei 7 punti. Poi però ha ceduto il torneo più sacro, Wimbledon, dove è stato introdotto il tie-break sul 12-12 nel quinto set. E ora anche gli Australian Open hanno scelto questa strada: addio alle maratone e introduzione del super tie-break, una nuova formula dove vince chi arriva prima a 10.

La novità è stata annunciata oggi, venerdì 21 dicembre, a poco più di tre settimane dall’inizio dell’edizione 2019 del torneo. “Abbiamo chiesto il parere a giocatori, sia in attività che ex, a commentatori, agenti e analisti della tv, questa è stata la loro decisione“, ha dichiarato il direttore dell’Australian Open, Craig Tiley. “Un tie-break lungo che permette di avere ancora tante emozioni – ha aggiunto – Noi crediamo che questa sia la soluzione migliore per giocatori e pubblico”. Falso, almeno per quel che riguarda gli spettatori europei che, solitamente, approfittano del prolungarsi delle partite serali in Australia per potersi vedere gli ultimi spezzoni al mattino.

Ma a perderci è soprattutto l’epica, non nella sua versione romantica in senso stretto, piuttosto in quanto caratteristica essenziale dei tornei dello Slam, per forza di cose diversi da tutti gli altri. Come i Mondiali di calcio sarebbero inconcepibili senza i tempi supplementari, così i grandi match della racchetta sarebbero da riscrivere se tutto fosse finito al tie-break. Si pensi alla finale sull’erba londinese del 2008 tra Roger Federer e Rafael Nadal, vinta dallo spagnolo 9 game a 7 al quinto set dopo 4 ore 48 minuti: tutt’ora il più lungo ultimo atto del torneo, ma soprattutto uno dei match simbolo del tennis moderno.

E poi ci sono le maratone vere e proprie, come quella tra Fabrice Santoro e Arnaud Clément al Roland Garros del 2004 (6 ore e 33 minuti), e soprattutto, tornando a Wimbledon, il primo turno dell’edizione 2010 tra John Isner e Nicolas Mahut. Una partita cominciata il 22 giugno alle 18.18 e terminata alle 16.48 di due giorni dopo: 11 ore e 5 minuti di match, 183 game giocati e 216 ace che ne fanno la gara più lunga della storia del tennis professionistico. La vinse l’americano Isner 6–4, 3–6, 6–7, 7–6 e 70–68: ci vollero più di 8 ore solo per giocare il quinto set.

A resistere resta solo il Roland Garros, mentre Wimbledon si è piegato a un compromesso e l’Australian Open ha scelto la formula da sempre utilizzata a New York. Gli americani hanno anteposto il business alla tradizione, forzando il tie-break al quinto set per esigenze televisive: volendo giocare le semifinali il sabato sera, quando c’è più pubblico collegato, non si può rischiare che la partita si prolunghi troppo: altrimenti salterebbe la finale della domenica.

Le scelte dell’organizzazione londinese e di quella australiana sembrano però legate ad altre logiche: il tennis, un po’ come fece la pallavolo alla fine degli anni 90, sta cercando di rivoluzionare il suo sistema di punteggio per rendersi più appetibile. L’ultimo Next Gen ATP, il torneo annuale di tennis dove si sfidano i migliori giovani under 21 della stagione, giocato a Milano a inizio novembre, ne è stato un antipasto: set al meglio dei 4 game con tie-break sul 3 pari e nessun vantaggio sul 40 pari. Ma anche un riscaldamento più breve, un timer per il servizio e l’obbligo di andare da soli a prendere l’asciugamano. Queste ultime novità interessanti per limitare i tempi morti all’interno della partita: obiettivo sacrosanto. Ma l’ultimo set negli Slam senza tie-break è qualcosa di diverso: non c’entra con noia e spettacolo, è l’idea di un match che potenzialmente può essere infinito.