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Saleem, il giornalista pakistano torturato e ucciso nel 2011 per le sue inchieste: “Su questa vicenda è calato il silenzio”

Collaboratore di Adnkronos International, Syed Saleem Shahzad è stato rapito il 29 maggio 2011 dopo aver pubblicato un articolo su un attacco terroristico contro una base della Marina. Una storia che ricorda quella di Giulio Regeni: a 7 anni dalla morte ancora non c'è un colpevole. L'intelligence americana ritiene responsabili i servizi segreti di Islamabad

Syed Saleem Shahzad è stato rapito il 29 maggio 2011, torturato e ucciso in Pakistan. Giornalista collaboratore di Adnkronos, due giorni prima del suo sequestro aveva pubblicato un articolo su un attacco terroristico contro una base della Marina pakistana: stava svolgendo delle inchieste sulle infiltrazioni jihadiste nell’esercito e i possibili legami tra ufficiali della Marina e al-Qaeda. Il suo corpo senza vita e con evidenti segni di torture, lividi sul volto e costole rotte, è stato trovato il 31 maggio in un canale a 150 chilometri dalla capitale Islamabad. “Sulla sua vicenda è calato il silenzio“, ha ricordato il segretario generale della Fnsi, Raffaele Lorusso, durante la conferenza stampa del 5 dicembre scorso della famiglia di Giulio Regeni. Una storia, quella di Saleem, che ricorda da vicino quanto accaduto al ricercatore italiano, torturato e ucciso in Egitto nel 2016. “Riteniamo che questa vicenda sia inaccettabile e che anche su questa vicenda il governo italiano debba chiedere al governo pakistano di assicurare alla giustizia i responsabili”, ha aggiunto Lorusso.

Dal 2004 Syed Saleem Shahzad era collaboratore di di Aki-AdnKronos International. Giornalista d’inchiesta con alle spalle vari reportage tra Iraq, Libano e Giordania, ma anche in Iran, Siria e negli Emirati Arabi Uniti, è stato anche è stato il capo dell’ufficio pakistano di Asia Times Online, oltre che membro dell’Unità di ricerca in sicurezza pakistana dell’Università di Bradford. Nel suo libro  ‘Inside Al-Qaeda: Beyond Bin Laden and 9/11‘ , aveva raccontato al-Qaeda e le motivazioni che avevano portato al terrorismo i miliziani jihadisti. Dai reportage sul terrorismo a quelli sui legami tra terrorismo e militari: era l’ultima tema di cui si stava occupando Shahzad prima di essere rapito e ucciso.

Oggi il giornalista avrebbe 48 anni, dalla sua morte ne sono passati sette. Ma “non si saprà mai chi e perché ha ucciso Saleem”, dice Anita, la vedova del giornalista, parlando all’Adnkronos. Rimasta a vivere con i tre figli in Pakistan, la donna racconta ad Aki di non aver ricevuto “alcun aiuto dal governo”. Anzi, “non abbiamo ricevuto aiuto da nessuno“, specifica la vedova, spiegando le difficoltà di ”dover gestire da sola i miei figli, le finanze e anche gli aspetti emotivi”. ”Sono stanca, ma questo è quello che la vita mi ha dato – prosegue Anita – Il tempo mi renderà giustizia, per questa lotta che sto conducendo da sola”.

Sulla morte di Saleem è stata aperta un’inchiesta ma a sette anni di distanza non c’è ancora un colpevole. L’intelligence americana ha ritenuto responsabili dell’omicidio ”barbaro e inaccettabile” i servizi segreti pakistani, l’Isi, che hanno sempre negato qualsiasi coinvolgimento. Una commissione governativa formata per indagare sulla morte del giornalista ha terminato il suo lavoro affermando di non aver individuato i responsabili dell’omicidio. Zohra Yusuf, presidente della Commissione per i diritti umani del Pakistan (Hrcp), ricorda bene Saleem Shahzad per le sue inchieste sulle infiltrazioni jihadiste all’interno dell’esercito: “Sia le organizzazioni per i diritti umani che quelle della stampa – spiega ad Aki – hanno continuato a sospettare l’Isi, per quegli articoli di Saleem”.

Per la Yusuf, le circostanze del rapimento e dell’uccisione di Shahzad lasciano pochi dubbi. “Il modo in cui venne preso e poi ucciso mostrarono risorse e capacità di pianificazione che escluderebbero il gesto di non professionisti”, dice la presidente dell’Hrcp. Lo stesso Shahzad, ricorda Yusuf, “in varie email a diversi giornalisti e a ‘Human Rights Watch‘ affermò che se fosse stato ucciso si sarebbe dovuto puntare il dito contro l’Isi”. La storia di Saleem è ricordata sul ‘Muro della Memoria‘ del Newseum di Washington che onora chi ha perso la vita cercando o diffondendo notizie.