Società

Giuseppe Piccione, la storia di un artista due volte migrante

Giuseppe Piccione ha un atelier in Ortigia, a Siracusa, nel quartiere ebraico della Giudecca. Artista iperconcettuale, ha riassunto nelle sue opere il senso di un’infanzia e un’adolescenza di emarginazione. E’ stato africano in Sicilia, l’africano da prendere a botte, perché era africano; da insultare perché era vissuto in Sudafrica e allora nel rione popolare era proprio l’africano (al significato si destinava il peggio delle intenzioni e della defezione umana, non che oggi sia cambiato qualcosa, nda). Era appena tornato dal Sudafrica, da Newcastle. I genitori migrarono in una terra d’oro, si diceva, nel 1968.

Giuseppe aveva appena compiuto un anno. Partirono con una grande nave da Trieste, arrivarono dopo molti giorni, estenuanti giorni, di viaggio in mare, nel porto di Durban. Il Sudafrica era una landa immensa, praterie, giardini coltivati, poteva essere un Eldorado, e lo fu per la famiglia. Giuseppe viveva in una casa coloniale inglese, la donna che aiutava in casa era una zulù, portava il figlio con sé. Era nero. Erano ancora anni di scontri e di segregazioni razziali. Giuseppe era bianco e giocava con il bambino nero. I recinti non sono un problema per i bambini, sono paranoie degli adulti. Con le dovute eccezioni, tuttavia.

Il padre di Giuseppe era diventato un costruttore, la loro bella casa confinava con la casa dei boeri, degli africans, i bianchi del Sudafrica. Compagnia molto selettiva, Giuseppe ne restava fuori, di solito. Lui per gli africans (che in definitiva è un idioma di origine fiamminga e per estensione indica la provenienza geografica e il colore della pelle) era “l’italiano che mangiava spaghetti e lumache”. E giù risate per questo, risate da far digrignare i denti a un bambino che non avrebbe capito subito e forse non ancora, da adulto, il sistema efferato e classista di quella civiltà anglosassone ed emancipata, ma che evidentemente preferiva distinguere, cioè la distinzione alla globalità. C’era la scuola per gli italiani, i greci, gli spagnoli, gli europei; indossavano divise verdi, con l’ape ricamata nel taschino sul petto. C’era la scuola per gli asiatici, divise di un altro colore. La scuola per gli africans. I bianchi del Sudafrica. Giuseppe ricorda la casa coloniale di Harting street.

La sua indole è rimasta cosmopolita, malgrado il senso di esclusione non lo abbia mai abbandonato. Tornano in Sicilia nel 1977. Giuseppe deve frequentare la quinta elementare, ma lo retrocedono nella terza. Parlava perfettamente l’inglese ed era il più grande, il più maturo, in quella classe. Era l’africano, stavolta. Nella sua terra. L’africano, gli urlavano con spregio i suoi compagni. Dunque non per tutti i bambini i recinti sono soltanto una provocazione. Sono paranoie indotte dagli adulti, prive di significato, ingenerate. Giuseppe imparò a difendersi, conobbe la strada. Le botte, da rendere, non solo da incassare. La rabbia dell’adolescenza poteva costringerlo a deviare, finire in brutti giri. E invece no, invece a Giuseppe venne in soccorso la sua stessa sofferenza che aveva trasformato in arte. Nel 1986 – già frequentava la facoltà di Architettura a Firenze – rimase folgorato dal tema di una mostra collettiva, Mater dulcissima, allestita in una chiesa di Siracusa. “Mi sono sentito investito di un ruolo da una volontà Superiore” racconta oggi Giuseppe. Da allora cominciò a produrre opere iperconcettuali, installazioni, fino ai nuovi lavori di introspezione con l’uso della fotografia e del campo visivo digitale.

Giuseppe non ha la consapevolezza delle radici, come un globetrotter non ha smesso di cercare, senza in fondo voler trovare la sua terra. Ogni artista nutre la propria inquietudine. Così anche Giuseppe. Nell’atelier espone le opere degli ultimi cicli su cui ha lavorato, Love street e The tribe, le prime sono texture di volti femminili, il secondo ciclo invece riguarda le maschere che realizza con colori acrilici, smalti, collage. I suoi quadri parlano di spaesamento, separazione, inesplicabilità. L’africanitudine è uno condizione dello spirito, in Occidente siamo costretti a chiamarla solitudine. Ma gli africans erano un’altra cosa. Su tutto sovrintendeva il pregiudizio, né più né meno che mezzo secolo dopo il viaggio in mare di Giuseppe. Non è un peccato distinguersi, non è una colpa, naturalmente. Ma tanto è, tanto è stato.