Mafie

Trattativa, le motivazioni della sentenza vanno lette ricordando stragi neofasciste, golpe e P2

Durante il microfono aperto che Radio Popolare ha mandato in onda nella mattinata di giovedì 19 luglio, dedicato all’anniversario della strage di via D’Amelio, un ascoltatore ha chiamato esprimendo una sollecitazione a giornalisti e cittadini: non arroccarsi su singoli eventi o su singoli decenni, trattandoli come se fossero compartimenti stagni, ma ampliare l’ottica, dare una lettura organica al recente passato italiano.

L’ascoltatore ha ragione e le motivazioni della sentenza a conclusione del processo di primo grado sulla trattativa Stato-mafia vanno proprio in questo senso: non limitarsi a un periodo, ma allargare la lettura, raccogliere elementi in apparenza frutto di disegni criminali differenti – come quelli scaturiti dalla criminalità politica – per cogliere elementi di raccordo realmente esistenti.

In quest’ottica emerge un quadro che non è il risultato di un unico disegno delinquenziale, frutto di un potente burattinaio, ma che è il fronte più evidente di un’alleanza tra realtà eterogenee, come sembrano essere mafie, estremismo neofascista, apparati d’intelligence che, sulla base di interessi convergenti, “deviano” seguendo input politici ancora da inquadrare nel dettaglio, e massoneria che, al pari, dimentica i postulati della fratellanza in nome di qualcosa di diverso. Ecco alcuni aspetti.

Le basi Nato di Verona, i neofascisti e Gelli

Si chiamava Ftase ed era il comando delle forze terrestri alleate del Sud Europa con base a Verona. Da qui – hanno accertato le indagini sulla strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969), della questura di Milano (17 maggio 1973) e di piazza della Loggia (28 maggio 1974) – erano passati elementi di rilievo di Ordine Nuovo, organizzazione di estrema destra sciolta per ricostituzione del partito fascista a fine 1973 e coinvolta negli attentati più tragici del periodo che va sotto l’espressione di strategia della tensione. Addirittura – secondo quanto disse il generale Vittorio Emanuele Borsi di Parma al giudice istruttore Carlo Mastelloni che indagava sul controverso disastro di Argo 16 (un aereo dei servizi italiani precipitato il 23 novembre 1973 su Marghera forse per una manomissione del Mossad) – la Nato usava gli ordinovisti per “compiti di guerriglia e di informazione in caso di invasione”.

Borsi di Parma per due anni fu comandante generale della guardia di finanza. Ma dopo l’arresto del boss corleonese Luciano Liggio, avvenuto a Milano il 16 maggio 1974 a valle di un’inchiesta istruita dal giudice Giuliano Turone, dovette lasciare il suo incarico nonostante le rassicurazioni di riconferma del governo e si vide subentrare il generale Raffaele Giudice, più avanti finito nello scandalo dei petroli e risultato iscritto, dopo la perquisizione del 17 marzo 1981, nella loggia P2 di Licio Gelli.

Quest’ultimo è proprio colui che, dopo che lo affermarono altri procedimenti giudiziari e la Commissione presieduta da Tina Anselmi, è stato anche per la sentenza sulla trattativa il rilevante trait d’union tra l’eversione di destra e la mafia, oltre che colui che, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta – come racconta l’inchiesta Sistemi criminali, poi archiviata -, aveva dato vita alla stagione delle leghe meridionali che perseguivano vetuste – ma mai tramontate – velleità separatiste con esponenti del neofascismo, come l’ex vertice avanguardista Stefano Delle Chiaie, della ‘ndrangheta calabrese e di cosa nostra siciliana. Non a caso di ufficiali della P2 si parla molto nelle pagine della sentenza sulla trattativa Stato-mafia.

I tentativi di golpe tra il 1970 e il 1974

A quella schiera apparteneva il direttore del Sid Vito Miceli, coinvolto nell’inchiesta sul progetto eversivo della Rosa dei Venti (poi ne uscì), che aveva come fiduciario un colonnello il cui nome, nonostante non fosse nell’elenco degli affiliati di Gelli, sarebbe tornato spesso, Federico Marzollo, comandante del raggruppamento Centri Controspionaggio. Ma al gruppo degli aderenti alla loggia occulta apparteneva anche un altro generale dei servizi segreti, Gianadelio Maletti, condannato per i depistaggi per la strage di piazza Fontana e riparato in Sudafrica, dove vive tuttora. I due, Miceli e Maletti, non stavano dalla stessa parte. Anzi, tra loro e i loro uomini c’era una vera e propria faida, determinata anche da dispute internazionali, divisi – come lo erano i rispettivi riferimenti politici – tra compiacenze verso le istanze della causa palestinese e, per converso, la fedeltà allo Stato di Israele.

Anche il prefetto Mario Mori, condannato in primo grado a Palermo a 12 anni e allora giovane capitano dei carabinieri che negli anni in cui prestò servizio al Sid usava come nome di copertura l’identità di Giancarlo Amici, finì in mezzo a diatribe di questo genere. Quando giunse al servizio, il 6 agosto 1972, Maletti manoscrisse sulla lettera di trasferimento che recava la data del 3 luglio precedente una frase: “Bene perdinci, quando arriverà?“. Nel corso dei due anni e mezzo che trascorse tra le barbe finte, il futuro prefetto riceve anche un paio di encomi, uno dei quali per aver sventato un attentato contro il premier israeliano.

Lasciò infine il Sid il 10 gennaio 1975 per una ragione ufficiale: intemperanze caratteriali che lo avrebbero fatto finire a comandare il nucleo radiomobile di Napoli. Ma quando ciò avvenne, fu fatta pressione sull’Arma dei carabinieri – e l’Arma eseguì, nonostante l’irritualità della raccomandazione – perché gli fosse esclusa come sede di nuova assegnazione Roma, dove tornò solo il 16 marzo 1978, giorno della strage di via Fani, che decretò l’inizio del rapimento del presidente Dc Aldo Moro e l’annientamento della sua scorta. In realtà, in base alla documentazione vagliata dalla Corte d’assise di Palermo, l’allontanamento dal Sid e dalla capitale sarebbe legata all’inchiesta sul golpe Borghese.

La Rosa dei Venti e la radicalizzazione dell’estrema destra

Non secondarie sciagure per il Sid arrivano poi nel 1974 – l’anno in cui avvennero due stragi, oltre a quella di Brescia c’è anche l’Italicus (4 agosto) -, quando il giudice istruttore di Padova, Giovanni Tamburino, raccolse un’inchiesta iniziata a La Spezia e andò avanti nello scandagliare i progetti destabilizzanti della Rosa dei Venti. Il magistrato, oltre a essere arrivato a Miceli (per la prima volta in Italia veniva arrestato il direttore dei servizi segreti), chiese una fotografia del capitano Mori che tuttavia giunse dopo che l’indagine fu trasferita da Padova a Roma per confluire in quella sul golpe Borghese del dicembre 1970. La foto, trovata ancora spillata decenni più tardi – non sortì alcun effetto.

Intanto, dopo lo scioglimento di Ordine Nuovo – conseguenza di una delle due inchieste condotte a Roma dal sostituto procuratore Vittorio Occorsio, poi ucciso nel 1976 dal nero Pierluigi Concutelli mentre indagava (anche) sui rapporti tra P2, sequestri di persona e banda dei marsigliesi – l’estrema destra era in fermento. Lo dimostrano due riunioni. La principale – oggetto di attenzione da parte del Sid e, secondo un riconoscimento, dello stesso Mori – avvenne tra il 27 febbraio e il 1° marzo 1974 sulla riviera adriatica, all’hotel Giada di Cattolica, quando fu deliberato il nuovo “impulso operativo” dell’estrema destra.

L’attacco fascista ai beni culturali

Nel periodo successivo alla riunione di Cattolica, Ordine Nuovo Veneto ebbe un’idea, poi ripresa con le stragi di mafia del 1993: colpire i beni culturali. Ne parlò agli inquirenti un ordinovista bolognese, Umberto Zamboni, rappresentante di una delle aree più oltranziste della formazione neofascista. L’idea era quella di puntare sulle opere d’arte e fu ripresa, guarda caso, da esponenti dell’estrema destra e in particolare da uno, il reggiano Paolo Bellini, il militante di Avanguardia Nazionale di Delle Chiaie divenuto successivamente killer della ‘ndrangheta. Condannato inizialmente (ma non solo) per furto di mobili antichi, fu arrestato sotto il falso nome di Roberto Da Silva e conobbe il mafioso Antonino Gioè, morto il 28 luglio 1993 all’apparenza suicida, spiegandogli quanto sarebbe stato importante puntare proprio sui beni culturali, poi in effetti presi di mira. Una coincidenza?

Ma nella storia di Bellini, ampiamente scandagliata dalle pagine giudiziarie e da quelle di cronaca, c’è un aspetto inedito ai resoconti giornalistici. Per illustrarlo occorre fare una premessa. Il 2 agosto 1980, quando esplose una bomba alla stazione di Bologna lasciando a terra 85 morti e ferendo oltre 200 persone, nello scalo ferroviario del capoluogo emiliano c’era uno strano personaggio che si chiama Sergio Picciafuoco e che restò leggermente ferito nella deflagrazione. Disse di essere stato lì perché a Modena aveva perso il treno per Milano e allora aveva ripiegato su Bologna nel tentativo di raggiungere il capoluogo lombardo. Ma una volta scoppiata la bomba, incurante delle lesioni riportate, aveva dato una mano nei soccorsi, per quanto solo un’ora più tardi circa risultasse tra le persone che ricevettero cure all’ospedale Maggiore.

Picciafuoco e Bellini

La versione di Picciafuoco non resse al vaglio degli inquirenti e, complice anche un documento d’identità falso che riconduceva direttamente agli ambienti del neofascismo e nello specifico del neofascismo siciliano in odor di servizi segreti e di logge compromesse negli anni Settanta con la destabilizzazione della Repubblica parlamentare, finì a processo per la strage di Bologna venendo condannato in primo grado. Poi la sua posizione fu stralciata e, giudicato di nuovo a Firenze, finì assolto con il successivo avallo della Cassazione.

Picciafuoco – che al giornalista Riccardo Bocca disse di essere stato malmenato nei pressi di Firenze da individui che poi avrebbe ricollegato a elementi della banda della Uno Bianca (6 componenti, di cui 5 poliziotti, che nei 7 anni e mezzo in cui agirono indisturbati fecero 24 morti in rapine che, per una buona parte, non fruttarono una lira o quasi) – a sorpresa lo ritroviamo nella sentenza di Palermo. Accade perché l’11 ottobre 1990 l'”estremista” Sergio Picciafuoco – che sarà sentito il prossimo autunno nel processo in corso a Bologna all’ex Nar Gilberto Cavallini, accusato di concorso nella strage alla stazione – arrivò, da informazioni della Digos, a Reggio Emilia salendo su un’auto intestata alla sorella di Paolo Bellini e con lui trascorse la mattinata del 12 ottobre.

Bellini, in quei giorni, aveva subito l’incendio dell’auto e – si legge nella sentenza – “non risulta che indagini condotte in proposito abbiano portato a chiarire esaurientemente l’episodio, né ad individuare il nesso che, date le circostanze, (porta a) coincidenze temporali (…) decisamente singolari“. Dunque una domanda, l’ennesima, resta: perché Bellini e Picciafuoco si incontrarono alla vigilia dell’ideazione della campagna stragista d’inizio anni Novanta?