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Coree, l’autodifesa di un popolo diviso in due. Ma le incognite sono molte

Kim Jong-un ha passato, a piedi, il confine tra le due Coree. È, in assoluto, la prima volta che un evento del genere si verifica dal 1953, quando la guerra si concluse senza nessun trattato di pace, lasciando dietro di sé una specie di limbo armato fino ai denti.

Dall’altra parte di quella strana frontiera, disegnata dal 38esimo parallelo, lo aspettava il presidente della Corea del Sud, Moon Jae-in. Entrambi protagonisti di una spettacolare inversione di marcia che si è realizzata quasi in un attimo, dopo più d’un anno di veementi accuse, minacce di ogni tonalità, tra Pyongyang e Washington, e  Tokio. E non solo minacce. I preparativi di guerra sono stati, fino a ieri, di una intensità senza precedenti in questi sessantacinque anni. Da una parte e dall’altra: americani e Corea del Sud impegnati in sistematiche e ripetute esercitazioni militari alla frontiera e in mare. PyongYang impegnata nella duplice preparazione del suo programma nucleare strategico e di quello missilistico corrispondente, concepito per portare molto lontano, il più lontano possibile, le sue testate atomiche.

Quanto lontano, in realtà, lo sa probabilmente solo Kim Jong-un e il suo gruppo ultrasegreto di scienziati e tecnici. L’Occidente sa soltanto quello che hanno visto i satelliti e i radar che seguivano le parabole dei vettori. E, per quanto riguardava gli esperimenti nucleari, solo i sismografi hanno dato qualche, incerto, risultato. Su tutti e due i temi gli “esperti” occidentali, che sanno poco o niente, hanno ricamato storie tanto fantasiose quanto incredibili, su cui è del tutto lecito dubitare.

Perché questo improvviso inasprimento è altrettanto questione in gran parte rimasta nebulosa. Di certo c’è che Kim Jong-un ha tenuto presente la sorte di Gheddafi, quella di Saddam Hussein e quella che si stava preparando, in questi ultimi sette anni, per Bashar al-Assad. E ha deciso di dotarsi di armi di “dissuasione” efficaci. In altri termini: far capire a Washington che, in caso di attacco, la Corea del Sud e il Giappone (come minimo) avrebbero pagato un prezzo catastrofico. Lo sforzo è stato indubbiamente gigantesco, date le condizioni di isolamento e di debolezza economica dalla Repubblica Popolare di Corea.

A quanto pare c’è riuscito, anche se l’entità della sua risposta potenziale non è nota. O, per meglio dire, non è nota del tutto. Certo, quello che è noto, e visibile, in termini di risposta “convenzionale”, è temibile. Ma a quella si è aggiunto un potenziale “strategico” che Washington non aveva previsto e che si apprestava a distruggere. Questa è la spiegazione più semplice (il che non vuole dire l’unica possibile, o quella esaustiva) di ciò che è accaduto. Donald Trump e il Pentagono (che avevano già in mente non uno ma diversi piani per eliminare Kim) hanno fatto i conti con il rischio e hanno frenato. Ma è accaduto anche un fatto nuovo che, probabilmente, era stato del tutto al di fuori delle loro previsioni.

Washington aveva messo in conto un certo livello di rischio. Il presidente di Seul non si è fidato di quel livello di rischio e ha deciso di prendere l’iniziativa in autonomia. Non è difficile seguire il corso dei suoi pensieri: se Washington attacca e sbaglia il bersaglio, o sottovaluta la capacità di reazione di Pyongyang, l’intera Corea del Sud sarà ridotta a un tizzone ardente. E il popolo coreano, nord e sud, sarà annientato. Da qui le mosse, concordate in extremis da ambo le parti (essendo evidente che i due leader coreani stavano già pensando la stessa identica cosa, e cioè che sarebbero stati entrambi vittima di errori altrui): contatti diretti e pubblici prima e durante le Olimpiadi invernali, un’unica squadra olimpica, invio di emissari da una parte e dall’altra sotto le telecamere del mondo intero.

Lo scopo era evidente: dire all’opinione pubblica americana e giapponese che c’era la possibilità di un accordo e che la guerra non era inevitabile. E, (mentre a Washington erano costretti a stare fuori dallo spettacolo, di cui, per altro, non avevano pagato il biglietto), si è andati diritti all’incontro al vertice tra le due repubbliche coreane.

L’incontro tra Kim Jong-un e Moon Jae-in dice ora che l’intesa di due piccoli Paesi ha potuto di più della imminente decisione dell’Impero. E  ha fermato i motori dei razzi e degli aerei prima del momento fatale. Una lezione di vittoria — si potrebbe dire —  in nome della sopravvivenza. L’idea di un vertice tra Kim e Trump è emersa da questa vittoria coreana congiunta. E non è ben chiaro nemmeno chi sia stato sconfitto: se Donald Trump o i falchi da cui è circondato, sia nella sua stessa amministrazione, sia nei servizi segreti che vogliono liquidarlo prima della fine del suo mandato. Fatto sta che i toni del presidente americano sono improvvisamente cambiati e ora sembra che, dopo avere insultato il suo nemico, oggi sia disposto a stringergli la mano come se niente fosse stato. Stravagante (e, per questo, pericoloso), ma non stupido.

Si è così aperta una pausa, un attimo che potrebbe condurre a una riflessione più duratura. Che il vertice tra i due coreani sia andato bene non sembrano esserci dubbi. Stanno entrambi respirando, cosa che avrebbero cessato di fare in caso di attacco. Ma nessuno può dire che il pericolo sia cessato del tutto. Come andrà, dove e se si farà, il vertice Kim-Donald, è questione apertissima. E lo è non tanto per l’imprevedibilità dei due interlocutori-nemici (fino a prova contraria), ma perché non sono affatto chiare troppe cose: per esempio quali sono le condizioni che Trump è disposto a concedere a Kim perché si senta e sia al sicuro. E anche quelle che Kim può dare a Washington sul futuro dei suoi programmi di difesa, sia atomica che missilistica.

Segno positivo è il viaggio di Kim a Pechino e la visita di Lavrov programmata a Pyongyang: entrambi i fattori dicono che il leader nord-coreano ha cambiato linea e si consulta con due “non nemici”, Cina e Russia, i quali hanno tutto l’interesse a spegnere i bollori. D’altro canto non sappiamo quali siano le condizioni interne in cui agisce Kim: è soddisfatto dei risultati raggiunti e può ora fare concessioni? La reciproca protezione con Moon Jae-in gli fornisce la sicurezza necessaria? Tutte incognite. E, cammin facendo, succederanno molte cose che potrebbero modificare il cammino di entrambi.

Una di queste è la “preoccupazione” americana che Kim potrebbe diventare un piazzista internazionale della sua produzione missilistica e atomica. Qualche “fuga di notizie” false, al riguardo, potrebbe rimettere in moto la macchina di guerra. I falchi Usa non attendono altro. Per intanto l’armata marittima americana è ormai stabilmente al largo delle coste sud-coreane (e, soprattutto, cinesi). Il prossimo ammiraglio destinato all’area del sud pacifico, Davidson, nella sua deposizione al Congresso, ha fatto capire molto chiaramente che la sua missione è quella di “contenere la Cina” nel Mar Cinese Meridionale. Dietro, e a fianco della Corea del Nord, c’è il contenzioso cinese su Taiwan, su cui Trump ha già detto che non concederà alcuno spazio a Pechino. La quale, a sua volta, considera già chiusa la questione, anche se sa attendere i tempi lunghi e lunghissimi per incassarla. E poi, infine, una nuova crisi coreana potrebbe essere utile per completare e migliorare l’accerchiamento americano dei due potenti nemici asiatici. I giochi sono ancora tutti da fare.