Società

Quaranta anni dalla Legge Basaglia, cosa è cambiato per psichiatri e luoghi di cura

Avviso agli internauti: ciò che segue è destinato ad addetti ai lavori del microcosmo “psy” prevalentemente campani, a curiosi inguaribili, a vittime della coazione a conoscere e a qualche fascinato dalle dinamiche socio-politico-sanitarie del nostro Paese. Tutti gli altri, prima di annoiarsi, è bene che si rivolgano ad altre rubriche (tra Di Maio-Salvini e Ferragni-Fedez c’è l’imbarazzo della scelta sui blog de ilfattoquotidiano.it, e altrove). Sei rimasto, peggio per te.

Avviso per te che leggi e non appartieni agli addetti ai lavori: ciò di cui si scrive attiene alle psicosi, i disturbi psichiatrici più gravi e minoritari, e non è in alcun modo esportabile a fattispecie più comuni e più diffuse (ad es. depressione, attacchi di panico, etc.). La riflessione di oggi trae origine dai seguenti elementi:
1. Il solito nuovo splendido articolo del collega G. Di Petta su un blog “specialistico”, in cui, con la modalità della lettera/testamento alle nuove generazioni di psichiatri, con parole al piombo si certifica il baratro epistemologico della psichiatria contemporanea;
2. I Decreti del Commissario ad Acta (Dca) Regione Campania nn. 193/2016 e 11/18, con cui le Case di Cura Neuropsichiatriche vengono riconvertite in Strutture per la Riabilitazione Psichiatrica;
3. Un mio vecchio post di qualche anno fa, in cui, arrabbiato, sottolineavo la ninna-nanna campana alla Legge 180/78, suonata al ritmo della delega al 118 degli interventi psichiatrici in acuzie;
4. Gli ubiquitari festeggiamenti per il quarantennale della Legge Basaglia in cui gran parte dei Dipartimenti di Salute Mentale Italiani sono o saranno impegnati.

Di Petta, sintetizzando con presunzione la dotta complessità del suo pensiero, vede gli psichiatri di domani, formatisi in epoca “post-psicopatologica/neo-positivista”, destinati al ruolo di “un (illusorio) equilibratore recettoriale. In realtà un sarto di camisole de force chimique per situazioni da tenere sotto controllo quando scoppiano”. Iperbolico e provocatorio il suo dire, tuttavia intercetta frammenti di verità almeno per quanto attiene all’attuale lavoro negli Spdc, i reparti ospedalieri di psichiatria (hanno bisogno di un acronimo per non rimandare fastidiosi echi manicomiali).

I Decreti al punto 2 hanno, a mio avviso, luci e ombre. Dal lato umbratile, fanno scomparire la parola “cura” inserendo la più modaiola “riabilitazione”, luminoso passepartout con cui dischiudere ogni qualsivoglia porta psicotica, e rendono più farraginose per le procedure di ammissione dell’utenza con prevedibile sovraccarico per gli Spdc. Dal lato assolato, sanano il delirio normativo per cui i pazienti gravi, risolta l’acuzie sintomatologica, erano destinati o al protrarsi di un ricovero divenuto improprio o all’inserimento in “case alloggio” con minimi compiti assistenziali o, di regola, al domicilio con ampi compiti assistenziali delegati alla famiglia. In altre parole prendono atto della criptomanicomialità diffusa, esito di una Legge 180 monca nella sua parte applicativa, e la normano. Principio di realtà batte illusione antipsichiatrica 1 a 0: palla al centro (e un’altra strofa di ninna-nanna per la Legge 180). Mi avvicino alla chiusura perché ‘sta roba inizia a diventare noiosa anche per me mentre la scrivo.

Cosa penso? Penso che le danze, le pizzette e le collanine delle feste per il quarantennale della Legge Basaglia siano la misura del fallimento di una rivoluzione mancata che può vedere solo il lavoro e la produttività come vera misura di inclusione sociale (lo diceva già Kraepelin un secolo fa, quando la riabilitazione non esisteva ma l’impegno per la cura forse sì). Penso che esista un piccolo numero di pazienti gravissimi che possano giovarsi di prolungate cure-riabilitazioni e per cui la vera inclusione sociale è, con le conoscenze odierne, purtroppo solo una chimera e penso che noi psichiatri dovremmo avere il coraggio di dircelo/dirlo.

Penso che le cure-riabilitazioni possano non essere infinite e penso che noi psichiatri dovremmo avere il coraggio di dircelo/dirlo. Penso che lo psichiatra ospedaliero spesso sia già stato ridotto a un “sarto di camicie di forza chimiche”, come dice Di Petta, e che quello territoriale stia geneticamente mutando, come me, in un redattore di cartacei e autoreferenziali progetti terapeutici che qualcun altro proverà ad applicare, arrangiandosi alla meno peggio. Penso che promozione, prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione siano una cosa sola: avere cura delle persone, Fürsorge, diceva Heiddeger in Essere e Tempo.

Penso che i nomi siano importanti e che un Spdc possa chiamarsi Reparto di Psichiatria, senza che nessuno si risenta con quaranta anni di ritardo. Penso che esistano sparuti manipoli di operatori con ancora sufficiente capacità di auto-osservazione da interrogarsi criticamente sul loro stesso operare quotidiano. Penso che l’unico Progetto Terapeutico sia che i pazienti abitino nella mente dei curanti, e che lì sostino, perché quello è il luogo della cura.